Tardività-ingiustificatezza e tardività-vizio procedimentale del licenziamento disciplinare e relative sanzioni
Carlo Pisani
Professore Ordinario – Università di Roma «Tor Vergata»
in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 9 Maggio 2014
Sommario: 1. – “Tardività-ingiustificatezza” dell’atto del licenziamento: la fattispecie della tolleranza. – 2. – La “tardività-ingiustificatezza” del licenziamento derivante dalla tardività della contestazione dell’addebito. – 3. – La tardività della contestazione disciplinare come vizio procedimentale. – 4. – Le sanzioni applicabili nell’area dell’art. 18 Stat. lav. alla “tardività-vizio procedimentale” e alla “tardività-ingiustificatezza” nell’area della tutela obbligatoria. – 5. – Le sanzioni applicabili alla “tardività-vizio procedimentale e i problemi di costituzionalità. – 6. Le sanzioni per la “tardività-ingiustificatezza”, tra 4 e 5 comma art. 18. Stat. lav.
1. – “Tardività-ingiustificatezza” dell’atto del licenziamento: la fattispecie della tolleranza. Non sempre viene compiutamente colta la differenza tra la tardività come elemento riguardante l’ingiustificatezza del licenziamento e la tardività come vizio procedimentale[1]. Distinzione, questa, che, a seguito del nuovo art. 18 Stat. lav., diviene particolarmente rilevante per il differente tipo di sanzione applicabile.
Il licenziamento può risultare ingiustificato sia per la tardività della contestazione degli addebiti rispetto alla piena conoscenza del fatto da parte del datore di lavoro, sia per la tardività della comunicazione del licenziamento rispetto alla contestazione, sia per entrambi i tipi di tardività.
Quanto alla tardività del provvedimento di licenziamento rispetto alla contestazione dell’addebito, questa sarà configurabile quando il datore di lavoro non intimi tempestivamente il recesso allo spirare del termine per la presentazione delle difese da parte del lavoratore, anche se non si può escludere aprioristicamente che si possa aggiungere lo strettissimo tempo necessario per ulteriori verifiche da parte del datore di lavoro circa le difese del dipendente.
Al riguardo la giurisprudenza, senza particolari approfondimenti teorici, qualifica questa tardività alle volte come manifestazione di volontà del datore di rinunciare ad irrogare la sanzione[2], ovvero come acquiescenza[3], altre volte come elemento costitutivo della giusta causa perché il ritardo sta a significare la compatibilità del fatto con la prosecuzione del rapporto[4], altre ancora come tolleranza del datore di lavoro[5], peraltro non senza confusione con l’acquiescenza[6].
La qualificazione più appropriata per la fattispecie in esame sembra essere quella della «tolleranza», riconducendola alla normale ipotesi di tolleranza del creditore rispetto ad un inadempimento o ad un inadempimento inesatto che, a determinate condizioni, può generare un affidamento meritevole di tutela[7]. Se, infatti, il datore di lavoro ha consentito che il rapporto proseguisse, evidentemente ha ritenuto che la condotta del lavoratore, pur ad esso ben nota, non fosse così grave da determinarlo nella decisione espulsiva. Sicché su questo atteggiamento del datore il lavoratore è legittimato a far affidamento.
In questi termini la tardività può essere vista come una sostanziale assenza di giustificazione del licenziamento.
Si comprende così perché il principio in questione valga anche per il licenziamento per giustificato motivo soggettivo[8]. L’unica differenza rispetto alla giusta causa consiste nella attenuazione temporale di tale requisito, occorrendo un tempo maggiore, in ragione del previsto preavviso, affinché sia configurabile l’atteggiamento di tolleranza da parte del datore di lavoro[9].
Più in generale, la tolleranza può essere identificata nell’atteggiamento del titolare del diritto che, di fronte ad una azione lesiva di tale diritto, ometta di reagire pur avendone la possibilità di farlo[10].
La tolleranza si differenzia dalla rinunzia tacita in quanto, pur presentando la comune caratteristica del non agire del titolare del diritto, il soggetto che rinunzia vuole dismettere il diritto e pone in essere mediante un comportamento concludente il negozio giuridico diretto a tal fine[11]; il soggetto che tollera invece non ha assolutamente questa intenzione, né realizza un qualsiasi atto di autonomia privata. In questa ultima ipotesi l’ordinamento non prende in considerazione la volontà del titolare del diritto, ma tiene conto soltanto del precedente comportamento e dell’affidamento generato in capo al terzo; sulla base di questi elementi viene stabilito l’effetto giuridico sfavorevole al tollerante. Per questo motivo è stata esclusa la qualificazione della tolleranza come atto negoziale, riconducendola invece ad un «fatto giuridico» consistente nell’atteggiamento del titolare del diritto contraddistinto dalla sopportazione e dalla mancata reazione di fronte all’azione lesiva del terzo a cui l’ordinamento ricollega conseguenze giuridiche[12].
Risulta così chiara anche la differenza tra tolleranza e comportamento concludente; quest’ultimo deve essere considerato soltanto uno dei possibili modi di manifestazione della dichiarazione negoziale «diverso dalla parola e dallo scritto»[13], caratterizzato dalla mancanza di «intermediazione del testo»[14], dal quale è dato tuttavia inferire che il soggetto, tenendo quell’atteggiamento, ha voluto manifestare un intento negoziale[15]. Se, invece, l’atteggiamento del soggetto ha creato un affidamento meritevole di tutela, senza comunque dar luogo ad una dichiarazione negoziale, la fattispecie deve essere ricondotta ai principi di buona fede e di correttezza che presiedono ai rapporti privati[16].
La tolleranza si differenzia altresì dall’«inerzia» in quanto nella prima è riscontrabile un preciso atteggiamento del titolare del diritto mentre nella seconda il semplice non agire. Le due figure, pur presentando in comune la caratteristica della mancata reazione del titolare del diritto di fronte all’attività lesiva del terzo, differiscono perché la tolleranza presuppone, al contrario dell’inerzia, la conoscenza, non potendosi tollerare ciò che non si conosce[17].
Infine la tolleranza non può essere confusa, a stretto rigore, neppure con l’acquiescenza, come invece lascerebbe intendere il promiscuo uso che si riscontra in giurisprudenza. Invero, il termine acquiescenza, pur avendo in comune con quello della tolleranza un significato di sopportazione e non opposizione rispetto alla volontà o all’attività altrui, si caratterizza, tuttavia, perchè indica inoltre accettazione e tacito consenso, o addirittura tacita rinunzia ad un diritto e, soprattutto in materia processuale, la volontaria e spontanea accettazione, espressa o tacita, di un provvedimento dell’autorità giudiziaria per sua natura suscettibile di reclamo impugnazione e quindi di riforma[18]. Mentre per i meri atteggiamenti di mancata reazione, come, nel nostro caso, quello del datore di lavoro che ritarda il licenziamento del lavoratore ritenuto colpevole, non potendo avere il significato di una rinunzia, si impone l’uso del termine «tolleranza», che, appunto, esprime una situazione in cui non entra in considerazione la volontà negoziale del soggetto ma soltanto il suo atteggiamento[19].
La spiegazione in termini di «tolleranza», fa anche capire perché la sospensione cautelare del lavoratore disposta al momento della contestazione dell’addebito sia sufficiente ad escludere la tardività del licenziamento[20]: infatti, così facendo il datore di lavoro reagisce in modo inequivoco allontanando dal posto di lavoro il dipendente, sicché il ritardo nell’intimazione del licenziamento non è oggettivamente suscettibile di ingenerare una aspettativa meritevole di tutela[21].
Ovviamente, a differenza della tempestività della contestazione dell’addebito (cfr. par. 3), il principio di tempestività del licenziamento trova la sua ratio soltanto nella tutela dell’affidamento del lavoratore[22], non venendo qui in rilievo alcun aspetto relativo all’esercizio del diritto di difesa, poiché il lavoratore ha già avuto la possibilità di presentare le proprie discolpe a seguito della contestazione[23].
[1] Coglie bene questa distinzione Cass. 28 novembre 2013, n. 2665, in questo numero della rivista, pag con nota di R. Maurelli
[2] Cass. 13 dicembre 1991, n. 13455, in «Giust. civ.» 1992, I, 3101.
[3] Cass. 6 dicembre 2005, n. 26670, in «www.Jusweb24ore.com»
[4] Cass. 5 maggio 1983, n. 3084, in «Foro it. – Rep.» 1984, 2195; Cass. 23 novembre 1991, n. 12617, in «Not. giur. lav.» 1992, 244; Cass. 27 giugno 1997, n. 5751, in «Not. giur. lav.» 1997, 523; Cass. 5 aprile 2003, n. 5396, in «Mass. giur. lav.» 2003, 484, 94; Cass. 20 giugno 2006, n. 14115, in «Mass. giur. lav.» 2006, 973; Cass. 24 giugno 1995, n. 7178, in «Riv. it. dir. lav.» 1996, II, 147.
[5] Cass. 28 settembre 2002, n. 14074, in «Riv. it. dir. lav.» 2003, II, 394; Cass. 5 aprile 2003, n. 5396, in «Mass. giur. lav.» 2003, 484; Cass. 16 aprile 2007, n. 9071, inedita a quanto consta.
[6] Cass. 24 giugno 1995, n. 7178, in «Riv. it. dir. lav.» 1996, II, 147. Anche la recente Cass. 28 novembre 2013, n. 2665, cit, prima parla di tardività come elemento costitutivo della giusta causa e poi, però, utilizza l’argomento del “ragionevole affidamento” del lavoratore sulla rinunzia del datore al licenziamento.
[7] Patti, “Profili della tolleranza nel diritto privato”, Napoli, 1978.
[8] Cass. 24 giugno 1995, n. 7178, in «Riv. it. dir. lav.» 1996, II, 147, con nota di Nannipieri, Principio di immediatezza e licenziamento disciplinare con preavviso; Cass. 13 maggio 2002, n. 6899, in «Mass. giur. lav.» 2002, n. 8-9, 595, n. 77. Secondo Cass. 12 novembre 2003 n. 17058, ivi 2004, 98, la tempestività nel recesso in tronco assurgerebbe ad elemento costitutivo di quel potere, mentre nel licenziamento con preavviso farebbe soltanto presumere l’acquiescenza del datore superabile mediante prova contraria.
[9] Così anche Vallebona, “Istituzioni di diritto del lavoro, II, Il rapporto di lavoro”, Padova 2005, 405-406; Alleva, “Sul principio di immediatezza”, op. cit., 673; Pera, “La cessazione del rapporto di lavoro”, Padova, 1981, 71.
[10] Patti, “Profili della tolleranza …”, op. cit., 61. La dottrina è divisa tra la qualificazione della tolleranza come atto giuridico in senso stretto e quella di atto negoziale: cfr. Betti, “Teoria generale del negozio giuridico”, II, in «Trattato di diritto civile italiano», diretto da Vassalli, Torino, 1960, 76; Candian, “Atto autorizzato, atto materiale lecito, atto tollerato – Contributo alla teoria dell’atto giuridico”, in «Saggi di diritto», III, Milano, 1949, 249; Protetti, Gli atti di tolleranza, in «Giur. agr. it.», 1964, 668.
[11] Satta, “La rinunzia tacita ad impugnare una deliberazione assembleare annullabile e la regola “protestatio contra factum non valet”, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1951, 671 e 687; Giampiccolo, “Note sul comportamento concludente”, in «Studi in memoria di Fumaioli», Milano, 1961, 778.
[12] Patti, “Profili della tolleranza …”, op. cit., 52.
[13] Così Barbero, “Sistema di diritto privato italiano”, Torino, 1962, I, 357.
[14] Così Schlesinger, in «Enc. dir.» XII, Milano 1964, voce Dichiarazione (teoria generale), 384.
[15] Sul comportamento concludente cfr. anche Giampiccolo, “Note sul comportamento …”, op. cit. 195; Smuraglia, “Il comportamento concludente nel rapporto di lavoro”, Milano, 1963, 17 e ss; Santoro Passarelli,”Dottrine generali del diritto civile”, Napoli, 1962, 141; Betti, “Teoria generale del negozio giuridico”, Torino, 1943, 91-92; Barassi, “Teoria generale delle obbligazioni”, Milano, 1948, 109.
[16] Patti, “Profili della tolleranza …”, op. cit., 84.
[17] Carresi, “I fatti spirituali nella vita del diritto”, in «Riv. trim. e proc. civ.», 1956, 419; Mirabelli, “L’atto non negoziale nel diritto privato italiano”, Napoli, 1955, 300; Tedeschi, “L’acquiescenza del creditore alla prestazione inesatta”, in «Temi», 1956, 406; Giampiccolo, “Note sul comportamento …”, op. cit., 788; Patti, “Profili della tolleranza …”, op. cit., 65.
[18] Minoli e Bergomi, in «Enc. dir.» I, 1958, voce Acquiescenza (dir. proc. civ.), 496.
[19] Patti, “Profili della tolleranza …”, op. cit., pag. 176.
[20] Cass. 2 maggio 2005, n. 9068, in «Foro it.» 2005, I, 3341; Cass. 28 gennaio 1992, n. 867, in «Giust. civ.» 1993, I, 3085.
[21] Cass. n. 867/92 cit. afferma espressamente che la persistente esclusione dall’ingresso in azienda del lavoratore è idonea ad escludere ogni tolleranza del datore di lavoro. Cfr. Cass. n. 26655/2013 cit., che valorizza l’elemento della mancata sospensione cautelare del dipendente al fine di ritenere 18 (o 19) giorni di ritardo nell’adozione del licenziamento sufficienti per il formarsi del ragionevole affidamento del lavoratore.
[22] Cfr., ad es., Cass. 18 aprile 1998, n. 3964, in «Dir. prat. lav.» 1998, 2472.
[23] Sull’errato presupposto che la ratio del principio di tempestività consista unicamente nel consentire al lavoratore una più agevole difesa, alcune sentenze della Cassazione hanno ritenuto che tale principio vada riferito solo alla contestazione dell’addebito e non anche all’irrogazione della sanzione: cfr. Cass. 16 settembre 2004, n. 18722, in «Mass. giur. lav.» 2004, 952; Cass. 21 maggio 1998, n. 5090, in «Dir. prat. lav.» 1998, 2720