Sottrazione totale delle mansioni e prova del danno alla professionalità
di Carlo Pisani
Professore ordinario di diritto del lavoro
Università degli Studi di Roma Tor Vergata
in Diritto delle Relazioni Industriali 4/2021
Cass. 28 settembre 2020, n. 20466
Demansionamento – Forzata inattività – Danno alla professionalità – Immanenza
Il danno da demansionamento è immanente nella condizione stessa di inerzia nella quale il dipendente viene illegittimamente collocato, per cui tale inattività comporta la lesione di un bene immateriale per eccellenza qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo.
Cass. 10 marzo 2020, n. 6750
Demansionamento – Danno alla professionalità – Danno in re ipsa – Esclusione – Onere dell’allegazione specifica a carico del lavoratore – Necessità
Il danno alla professionalità non discende in re ipsa dal demansionamento, anche da forzata inattività, ma deve essere allegato e provato dal lavoratore che agisca in giudizio per provare il demansionamento. Tale danno deve essere escluso nel caso in cui il lavoratore abbia dichiarato che sarebbe stato in grado, al momento della riassegnazione dei precedenti compiti, di essere in grado di svolgerli come prima.
Sommario: 1. Le oscillazioni della giurisprudenza sulla prova del danno alla professionalità – 2. L’incompatibilità del danno in re ipsa con i principi in materia di responsabilità contrattuale anche in caso di sottrazione delle mansioni. – 3. L’oggetto della prova del danno alla professionalità e le presunzioni semplici.
1. Le due sentenze riflettono il differente orientamento della sezione lavoro della Cassazione in ordine alla prova del danno da demansionamento, soprattutto per quanto riguarda la sua “variante” costituita dalla “forzata inattività” del lavoratore, come conseguenza della sottrazione totale delle mansioni.
Una tale oscillazione emerge essenzialmente in riferimento a quest’ultima situazione forse perché alcune pronunce sostengono che si tratti di fattispecie “diversa” da quella presa in considerazione dall’art. 2103 cod. civ. (cfr. ad es. 12 aprile 2012, n. 7963; Cass. 21 maggio 2009, n. 11835). E così, mentre alcune sentenze ribadiscono la linea più rigorosa affermando che, anche nel caso di sottrazione totale delle mansioni, il lavoratore è onerato dell’allegazione e della prova tempestiva dei pregiudizi concreti alla professionalità derivanti dal periodo di forzata inattività, senza possibilità di alcun automatismo tra illecito e danno (Cass. 5 settembre 2018, n. 21667; Cass. 25 febbraio 2019, n. 5431; Cass. 18 maggio 2021, n. 13536), in altre, invece, addirittura anche dello stesso relatore, si trova espresso il principio di cui alla prima massima; si veda, ad esempio, Cass. 13 dicembre 2019, n. 32982, in cui si sostiene, dapprima e più prudentemente, che l’onere della prova del danno non patrimoniale risulta necessariamente “alleggerito” laddove il lavoratore viene lasciato in totale inattività per molto tempo; poi, però, si conclude nel senso che tale condizione di inattività produce “automaticamente” un danno, trattandosi di violazione di diritti del lavoratore oggetto di tutela costituzionale (cfr. anche Cass 14 ottobre 2020, n. 2228).
Riemerge così la, mai del tutto sopita, tentazione di una parte della giurisprudenza di riaffermare l’idea del danno in re ipsa derivante da demansionamento, nonostante che le Sezioni Unite del 2006 (Cass. S.U. 24 marzo 2006, n. 6572), avessero rigettato nettamente questo orientamento, non facendo eccezioni neppure in relazione alla situazione in cui il lavoratore viene lasciato senza mansioni.
Ciò non toglie, come si è accennato, che altra parte consistente della giurisprudenza successiva alle suddette Sezioni Unite, ne abbia riaffermato i punti fermi, ovverosia, che il risarcimento non ricorre automaticamente in tutti i casi di demansionamento (in tal senso, Cass. 3 aprile 2014, n. 7813; Cass. 8 gennaio 2014, n. 172; Cass. 3 giugno 2013, n. 13918, 45; Cass. 8 giugno 2012, n. 9343) e non può ritenersi “in re ipsa” neppure nel caso di lesione di diritti inviolabili (Cass. 14 maggio 2012, n. 7471), non potendo prescindere da una specifica allegazione nel ricorso introduttivo per quanto riguarda la natura e le caratteristiche del pregiudizio medesimo (Cass., S.U., 17 settembre 2010, n. 19785; Cass. 8 giugno 2012, n. 9343, ivi, 2012, n. 36, 37; Cass. 14 maggio 2012, n. 7471, cit., ha ritenuto che il generico riferimento alla “frustrazione personale”, e “al discredito dell’ambiente di lavoro” deviante dal demansionamento si risolva in sostanza nell’inammissibile affermazione di un danno “in re ipsa”), non essendo sufficiente la mera potenzialità lesiva della condotta, incombendo al lavoratore di provare il danno e il nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (Cass. 3 giugno 2013, n. 13918, 45; Cass. 8 giugno 2014, n. 9343; Cass. 3 aprile 2014, n. 7818; Cass. 3 giugno 2013, n. 13918).
Tuttavia, ai fini della suddetta prova, la giurisprudenza ha cominciato a far largo uso di presunzioni (Cass. 3 aprile 2014, n. 7818), individuando alcune caratteristiche del demansionamento che possono assumere rilevanza quali elementi gravi, precisi e concordanti, per la prova presuntiva del danno, come la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del periodo di demansionamento, la sua gravità e la conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro (Cass. 18 marzo 2014, n. 6230).
Questa utilizzazione sempre più ampia delle presunzioni, al fine di agevolare il lavoratore in ordine alla prova del danno, è stata la tecnica mediante la quale parte della giurisprudenza si è allontanata progressivamente dalla rigorosa impostazione delle Sezioni Unite del 2006, facendo sostanzialmente riemergere la concezione del danno “in re ipsa”. Si è infatti sostenuto che, specie per alcune tipologie di mansioni, caratterizzate da alte specializzazioni, la sussistenza del danno da demansionamento rientrerebbe nella comune esperienza, come fatto notorio, e quindi non abbisognevole di prova (Cass. 9 settembre 2008, n. 22880). Analogamente, in relazione al danno all’immagine, le Sezioni Unite n. 3677/2009 (Cass., S.U., 16 febbraio 2009, n. 3677), hanno considerato tale tipo di danno come una oggettiva conseguenza della illegittima revoca di un incarico dirigenziale, esonerando così il danneggiato dall’onere della prova. Il suddetto “aggiustamento” operato dalle Sezioni Unite del 2009, rispetto alle precedenti Sezioni Unite del 2006, potrebbe trovare applicazione anche ai pregiudizi alla dignità, all’onore, alla reputazione e alla stessa sofferenza interiore (c.d. danno morale soggettivo). In sostanza, secondo quest’ultima impostazione, solo il c.d. danno biologico e il pregiudizio esistenziale necessiterebbero della allegazione e prova dei fatti specifici (Cass. 8 giugno 2012, n. 9343) mentre, per tutti gli altri pregiudizi non patrimoniali, opererebbe una presunzione giurisprudenziale che invertirebbe l’onere probatorio, gravando il danneggiante della prova contraria.
Una sentenza in cui è emersa con maggiore evidenza questa “ribellione” alle Sezioni Unite del 2006 è la n. 7963 del 2012, in cui appunto si afferma senza mezzi termini, a proposito della totale sottrazione delle mansioni che, in tal caso, “tale lesione produce automaticamente un danno (non economico ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale”. La sentenza, poi, per non andare apertamente in contrario avviso alle Sezioni Unite, ricostruisce la forzata inattività del lavoratore come fattispecie differente dalla violazione dell’allora vigente regola dell’equivalenza.