LO JUS VARIANDI, LA SCOMPARSA DELL’EQUIVALENZA, IL RUOLO DELL’AUTONOMIA COLLETTIVA E LA CENTRALITÀ DELLA FORMAZIONE NEL NUOVO ART. 2103
CARLO PISANI
Prof. ord. dell’Università di Roma
in ADL – Argomenti di diritto del lavoro n. 6/2016
Sommario: 1. L’ “anomalia” dello jus variandi e la disciplina dei suoi limiti: dal codice civile del 1942 al Jobs Act – 2. La permanente distinzione tra potere direttivo e jus variandi – 3. I caratteri immutati dello jus variandi in relazione alla mobilità orizzontale – 4. La rigidità dell’interpretazione giurisprudenziale dell’equivalenza delle mansioni – 5. L’auspicato cambiamento di tecnica legislativa, le possibili scelte dell’autonomia collettiva e in particolare quelle del contratto collettivo dei metalmeccanici – 6. La rete di protezione inderogabile: la formazione – 7. La costituzionalità della norma
- L’ ”anomalia” dello jus variandi e la disciplina dei suoi limiti: dal codice civile del 1942 al Jobs Act.
Come previsto dall’art. 3, comma 1, d. lgs. n. 81/2015, il nuovo art. 2103 cod. civ. sostituisce integralmente il precedente il quale, a sua volta, era stato novellato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori. Si tratta di tre norme che hanno utilizzato tecniche differenti sempre al fine di disciplinare i limiti allo jus variandi del datore di lavoro, e cioè quello speciale potere che si ritiene sia attribuito al datore di lavoro di “imporre al prestatore di lavoro compiti eccedenti il contenuto delle mansioni convenute”[1].
Il “problema”, dunque, è sempre lo jus variandi, nel senso che se non vi fosse questa “anomalia” storica del rapporto di lavoro rispetto al principio generale dei contratti, secondo cui l’oggetto può essere modificato solo consensualmente[2], non emergerebbe la necessità di questo tipo di regolamentazione. Anomalia ancor più accentuata dopo la novella dell’art. 13 L. n. 300/70 perché, come si sa, a differenza di quanto era desumibile dall’originario testo del 2103, si è dato per acquisito che, nell’ambito delle mansioni equivalenti, lo jus variandi sia esercitabile per imporre anche spostamenti definitivi e senza alcun onere di giustificazione da parte del datore di lavoro e che quindi tale potere abbia perso i connotati dell’eccezionalità che lo rendevano compatibile con il principio consensualistco del contratto[3].
D’altra parte, se si lasciasse la materia governata interamente dall’autonomia negoziale individuale, si riproporrebbero altro genere di problemi, come quelli insorti sotto la vigenza dell’”originario” art. 2103 cod. civ. È noto, infatti, che la più grave delle inadeguatezze garantistiche riscontrate nell’applicazione della norma codicistica del 1942 consistesse nella piena ammissibilità, senza alcun limite inderogabile, dei mutamenti definitivi in pejus delle mansioni, ivi compresa la retribuzione, con il solo consenso anche implicito del lavoratore, giacché i limiti allo jus variandi previsti da tale norma riguardavano solo le modifiche unilateralmente disposte dal datore di lavoro mentre erano totalmente libere quelle consensuali, tramite le quali potevano essere attuati anche i più radicali declassamenti. Questa situazione era ancor più aggravata dall’interpretazione giurisprudenziale che vedeva nella mancata reazione immediata del lavoratore – che addirittura sarebbe dovuta consistere, secondo un diffuso orientamento, nelle dimissioni in tronco[4] – la manifestazione di un consenso tacito o implicito nei confronti di dette modifiche. Con quanta poca “genuinità” di questo consenso del lavoratore è agevole intuire, oltretutto in un quadro normativo che fino al 1966 consentiva il licenziamento libero.
A tutto questo intese reagire il legislatore dello Statuto dei lavoratori[5], adottando la diversa tecnica della uniformità regolativa rigida mediante la norma inderogabile a precetto generico dell’equivalenza, unitamente alla espressa previsione della nullità di “ogni patto contrario”. Proprio la perentorietà del secondo comma dell’art. 13 Stat. lav. esprimeva efficacemente una tale inversione di rotta, sancita con forza anche a costo di apparire ridondante, vista la natura di norma imperativa della disposizione di cui al primo comma, appunto per segnare il netto superamento della situazione precedente[6]. Non a caso veniva comunemente indicata come la novità di maggior rilievo dell’art. 13 Stat. lav. l’aver sottratto all’autonomia negoziale i limiti imposti alla modificazione delle mansioni.
Questa reazione ben presto sfociò nell’eccesso opposto, anche, o soprattutto, in conseguenza dell’interpretazione giurisprudenziale statica dell’equivalenza (cfr. par. 4), per cui ne scaturì una regolamentazione appunto rigidamente uniforme della mobilità orizzontale in cui non vi era posto “per soluzioni aperte al ragionevole”[7].
Con qualche decennio di ritardo il legislatore ha finalmente deciso di porre rimedio a questo altro eccesso con l’art. 3 del d. lgs. n. 81/2015, superando il monopolio legale della disciplina dei limiti al mutamento delle mansioni e dei connessi problemi di rigidità, uniformità regolativa ed incertezza che ne derivavano, per adottare invece la tecnica del rinvio al contratto collettivo, utilizzando l’istituto di quest’ultimo (il sistema di inquadramento), per riconnettervi un effetto, e cioè il limite al mutamento delle mansioni, per prevedere poi alcune ipotesi in deroga al suddetto limite onde consentire un ulteriore flessibilità[8].
Ritornando allo jus variandi, va evidenziato come neppure il legislatore del Jobs Act abbia colto l’occasione per prevederlo espressamente nel comma 1, a differenza dell’ipotesi di adibizione a mansioni inferiori di cui al comma 2, in cui si afferma espressamente che il lavoratore “può” essere assegnato a tali mansioni. Infatti, il “deve essere adibito”, di cui al comma 1, esprime solo un divieto o un limite legale[9]; ma nulla ci dice se riferito ad un potere o ad un accordo. È pur vero che chi “adibisce” è solo il datore di lavoro; tuttavia l’adibizione non presuppone necessariamente un precedente atto unilaterale, configurandosi solo come l’atto materiale di assegnazione al “posto” lavorativo [10], che può essere anche la conseguenza di una pattuizione in tal senso, come sicuramente si verifica per l’”adibizione” riferita alle mansioni di assunzione; e analogamente si può ritenere per il termine “assegnazioni” utilizzato dalla norma nei commi 2, 4 e 7, che è si atto tipico del datore di lavoro, ma di carattere esecutivo che può essere riferito alla fase attuativa di una modificazione, la cui fonte non è considerata, potendo essere consensuale, come nell’ipotesi dell’assegnazione definitiva a mansioni superiori, ai sensi del comma 7, oppure unilaterale, come nel caso dell’assegnazione a mansioni inferiori, ai sensi del comma 2.
Sicché, anche con il nuovo art. 2103 cod. civ., quella dello jus variandi rimane una delle questioni dommatiche irrisolte e dimenticate del diritto del lavoro[11], in quanto gli argomenti contrari alla configurabilità del potere, fin dopo la novella dell’art. 13 Stat. lav., sembrano essere stati più oggetto di rifiuto che di confutazione nel dibattito scientifico[12].
Non è solo una questione dommatica ma anche di rilevanza pratico-applicativa, giacché una modificazione delle mansioni imposte dal datore di lavoro può essere non gradita al lavoratore poiché pregiudica una serie di interessi di quest’ ultimo che non trovavano tutela nella regola dell’equivalenza, né ora nell’accorpamento delle nuove mansioni nello stesso livello e categoria. Si tratta di interessi non strettamente connessi al contenuto delle mansioni ma comunque idonei ad incidere negativamente sulla vita del lavoratore, che nel nuovo art. 2103 cod. civ., ricevono un parziale punto di emersione soltanto nel comma 6, laddove si prevede la possibilità degli accordi in deroga, tra l’altro, per l’ipotesi dell’interesse del lavoratore al miglioramento delle condizioni di vita. Si pensi all’interesse del lavoratore a non essere spostato a mansioni che comportino orari, turni o ambienti peggiori, responsabilità particolari, trasferimento, continue trasferte, distacchi, ecc. A questi occorre ora aggiungere anche la possibile perdita di compensi legati alla particolare professionalità delle precedenti mansioni, poiché la regola dell’irriducibilità della retribuzione non è più prevista per i mutamenti di mansioni nell’ambito del comma 1, ma solo per quelli in pejus ex commi 2 e 4. Va ricordato che, secondo la giurisprudenza formatasi sulla norma dell’irriducibilità contenuta nel precedente testo dell’art. 2103 c.c., il lavoratore adibito a mansioni equivalenti conservava tutti i compensi remunerativi della professionalità, con esclusione delle sole erogazioni connesse al disagio per lo svolgimento della prestazione in particolari condizioni di tempo o di luogo, se tali condizioni venivano meno con le nuove mansioni, in quanto non correlate con la qualità professionale delle precedenti mansioni[13].
Tuttavia questa variegata tipologia di pregiudizi che il lavoratore potrebbe subire da una determinata modifica delle mansioni, e che il limite legale non è in grado di proteggere, per la verità rientrerebbero nella “varia gamma di interessi che possono aver indotto il soggetto ad accettare di svolgere una determinata mansione prestazione, a preferenza di altre seppur di egual valore”[14]. È proprio per dare rilevanza a tali interessi, garantendoli, che, normalmente, nel diritto comune dei contratti, esplica la sua funzione tipica la sovranità della volontà bilaterale nella determinazione del contenuto del contratto[15].
[1] Per tutti, cfr. G. Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Napoli, 1963, pag. 229.
[2] Secondo V. Roppo, Il contratto, Milano, pag. 555, lo jus variandi “si presenta come un’offesa al principio del vincolo”.
[3] Sia consentito per brevità rinviare a C. Pisani, La modificazione delle mansioni, Franco Angeli, Milano, 1996, ove è riportato il dibattito in dottrina sull’argomento.
[4] Cfr., ad es., Cass. 12 ottobre 1968, n. 3243, in Mass. giur. lav., 1969, pag. 205: “Ove il dipendente non intenda adeguarsi al mutamento delle condizioni operato dal datore di lavoro, unico modo per reagire a quelle unilaterali ed arbitrarie modificazioni è di recedere dal rapporto facendo valere l’arbitrarietà come giusta causa di risoluzione del rapporto”. Conformi, sempre in relazione al vecchio testo, Cass. 29 aprile 1977, n. 1645, in Foro it., Rep. 1977, voce Lavoro (Rapporto), pag. 392; Cass. 9 febbraio 1977, n. 593, in Foro it., I, pag. 1460; Cass. 8 marzo 1975, n. 856, in Foro it., Rep. 1975, voce cit., pag. 183. Come è noto a tale orientamento si opponeva decisamente, ma inutilmente, parte della dottrina: cfr. C. Smuraglia, Il comportamento concludente nel rapporto di lavoro, A. Giuffrè, Milano, 1963, pag. 111; G. Giugni, Mansioni, op. cit., pag. 390; V. Simi, Comportamento delle parti e sospensione cautelare, in RGL, 1962, II, pag. 312; D. Garofalo, Brevi note sul tema della c.d. “acquiescenza” del lavoratore”, in RGL, 1973, II, pag. 423 s.
[5] Sulla considerazione che l’obiettivo fosse questo, la dottrina è quasi unilateralmente d’accordo: cfr. per tutti, T. Treu, Statuto dei lavoratori, in Enc. del diritto, pag. 1058; F. Liso, La mobilità dei lavoratori in azienda. Il quadro legale, Franco Angeli Editore, 1983, pag. 186/184; G. Suppiej, Il rapporto di lavoro, Cedam, 1982, pag. 330; U. Romagnoli, Il rapporto di lavoro, Zanichelli, Bologna, 1987, pag. 157-158; M. Dell’Olio, L’oggetto e la sede della prestazione di lavoro, le mansioni, la qualifica, il trasferimento, in Tratt. Rescigno, XV, 1, Torino, 1986, pag. 504. L’unico autore che sostiene che la norma non andrebbe interpretata supponendo che la sua ratio sia stata quella di eliminare le precedenti insufficienze garantistiche è l’Assanti, Commento allo Statuto dei diritto dei lavoratori, Cedam, Padova, 1972, pag. 140-141. Per la situazione precedente, cfr., per tutti, G. Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, op. cit., pag. 327 s.
[6] Cfr. per tutti, M. Persiani, Prime osservazioni sulla disciplina delle mansioni e dei trasferimento dei lavoratori, in Dir. lav., 1971, I, pag . 21; F. Ghera, Mobilità introaziendale e limiti dell’art. 13 St. lav., in Mass. giur. lav., 1984, pag. 407. Cfr. anche Lavori preparatori dello Statuto, pag. 825, laddove l’allora Ministro del lavoro Donat-Cattin, nell’illustrare l’emendamento che appunto proponeva l’aggiunta del 2° comma affermava che «l’ulteriore aggiunta delle parole “ogni patto contrario è nullo” non sia necessaria, ma non sia per nulla tale da rendere meno efficace l’emendamento stesso».
[7] Così M. Grandi, La mobilità interna, in AA.VV., Strumenti e limiti della flessibilità, Milano, 1986, pag. 292-293; F. Liso, La mobilità, op. cit., pag. 175.
[8] C. Pisani, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, G. Giappichelli Editore, Torino, 2016, pag. 35 e ss.
[9] G. Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., pag. 368; M. Persiani, Contratto di lavoro e organizzazione, Padova, 1966, pag. 195; F. Liso, La mobilità, op. cit., pag. 12; F. Ghera, Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato, in Atti del VI Congresso di diritto del lavoro, Milano, 1979, pag. 336; A. Vallebona, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del lavoratore, Padova, 1995, pag. 126; C. Pisani, La modificazione delle mansioni, Franco Angeli Editore, Milano, 1996, pag. 227; L. Cavallaro, Rapporto di lavoro e provvedimenti d’urgenza. Un riesame critico, in Riv. it. dir. lav., 200, pag. 471.
[10] C. Pisani, La modificazione, op. cit.; C. Assanti, Commento…, op. cit. , pag. 142; G. Suppiej, Il rapporto…, pag. 324; M. Dell’Olio, L’oggetto…, pag. 506 in relazione all’assegnazione per le mansioni superiori; F. Liso, La mobilità…, pag. 166.
[11] Sul punto più ampiamente C. Pisani, La modificazione delle mansioni, F. Angeli, Milano, 1996, pag. 11 e ss.; Id. Lo jus variandi: le questioni dommatiche irrisolte nel diritto del lavoro, in Mass. giur. lav., n. 11, 2013.
[12] Così, M. Grandi, La mobilità…, op. cit., pag. 262.
[13] Cfr. Cass. 2 novembre 2005, n. 21217, in Guida al lav., 2006, n. 1, pag. 31; Cass. 21 aprile 2009, n. 9457, in Guida al lav., 2009, n. 28, pag. 34; ad esempio, non ha riconosciuto l’indennità di reggenza di Filiale, Cass. 25 maggio 2006, n. 10091, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, pag. 654. Il confine comunque alle volte era incerto, in quanto alcuni emolumenti, ad esempio, l’indennità maneggio denaro, possano presentare entrambe le caratteristiche.
[14] Così, Giugni, Mansioni e qualifiche nel rapporto di lavoro, op. cit., pag. 259 e anche pag. 379.