La tutela degli interessi delle nuove generazioni e le risposte del diritto del lavoro
Carlo Pisani
Ordinario di diritto del lavoro
Dipartimento di giurisprudenza
Università degli Studi di Roma Tor Vergata
Edizioni LPO (LAVORO E PREVIDENZA OGGI)
Supplemento al n. 11-12/2022
SOMMARIO: 1. I pensionamenti anticipati in pregiudizio delle nuove generazioni. 2. Statuto epistemologico del diritto del lavoro e diritto dell’ambiente. 3. Consumi di massa e ambiente. 4. Diritto al lavoro e tutela della salute.
1. I pensionamenti anticipati in pregiudizio delle nuove generazioni.
Per il mio intervento ho volutamente posposto i termini del titolo del convegno per evidenziare un primo aspetto in relazione al quale il diritto del lavoro può incidere in modo significativo per la tutela degli interessi delle nuove generazioni, in quanto rispetto alla materia ambientale sono altri i settori del diritto o dell’economia che maggiormente possono contribuire a lasciare un pianeta vivibile come precondizione per il godimento di tutti gli altri beni.
Pertanto, osservo subito che, uno dei principali interessi su cui noi lavoristi possiamo e anzi dobbiamo dire qualcosa, è quello di assicurare alle nuove generazioni la possibilità di godere di un trattamento pensionistico al termine della loro vita lavorativa, come ne hanno potuto godere le generazioni precedenti; altrimenti si verificherebbe una delle più macroscopiche discriminazioni basate sull’età nel periodo post costituzionale.
Questo è un tema su cui la politica può fare seri danni alla prossima generazione, mandando oggi in pensione le persone ancora nel pieno delle forze (eccetto lavori usuranti), che fa sinergia negativa con la crisi demografica, e crea squilibri irreversibili nel sistema previdenziale.
Si tratta di scelte politiche un po’ sciagurate e un po’ populiste; non a caso la miglior definizione di populista è quella di De Gasperi: il politico guarda alle prossime elezioni, lo statista alla prossima generazione. Nella sostanza il problema della crisi della democrazia sta tutto qui.
2. Statuto epistemologico del diritto del lavoro e diritto dell’ambiente.
Per quanto riguarda la questione ambientale, Romagnoli scriveva giustamente che il diritto del lavoro non si è mai posto il problema del “cosa produrre, del perché produrre e per chi produrre”.
È l’idea, possiamo dire novecentesca, di un diritto del lavoro quale sistema normativo chiuso, centrato sull’obiettivo di un accrescimento dei livelli di tutela del lavoratore subordinato.
Il dato della responsabilità ambientale è stato semplicemente “rimosso” dal suo statuto epistemico e assiologico, preferendosi inseguire populisticamente la chimera di una quadratura del cerchio tra aumento del PIL, aumento dell’occupazione e preservazione dell’ambiente.
Ad esempio, nel 2019, si è aggiunto un secondo comma all’art. 2086 c. c., dove al primo comma vi è la norma secondo cui l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui gerarchicamente dipendono i suoi collaboratori, che evidenzia con crudezza, ma quantomeno senza ipocrisia, la realtà della subordinazione; per la verità si è anche sostituita la rubrica di quella norma, che prima riportava: “Direzione e gerarchia dell’impresa”, con il più politicamente corretto “Gestione dell’impresa”; al secondo comma, dicevo, è stato inserito il dovere per l’imprenditore di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione degli strumenti per il superamento della crisi stessa.
Una norma generale di questo tipo probabilmente avrà uno scarso impatto applicativo in relazione alle conseguenze della violazione di quel divieto, ma intanto è un segnale sistematico, nel senso che l’imprenditore deve farsi carico delle conseguenze sociali della sua inefficienza, e prima ancora, possibilmente prevenirle. Un analogo segnale, magari come terzo comma di quella stessa norma, in termini di doveri sociali generali dell’imprenditore, avrebbe potuto essere previsto in materia ambientale, sancendo che è altresì dovere dell’imprenditore di dotarsi di un assetto organizzativo e produttivo tendente al risparmio energetico, e all’entità degli scarti o dell’uso delle materie prime, o dell’incidenza dei costi di logistica e trasporti nella catena di fornitura e distribuzione, e simili. È vero che la generica salvaguardia dell’ambiente si ricava in via interpretativa anche dall’art. 41 Cost., comma 2, laddove limita l’iniziativa economica privata in contrasto con la sicurezza e l’utilità sociale. Ma una norma più specifica avrebbe contribuito a riempire di contenuti la norma generale e sarebbe stato un segnale importante.
Certamente l’attenzione è stata massima per la tutela della salute, anche ambientale, dei lavoratori, ma sempre all’interno del luogo di lavoro. Anche se poi questo luogo si smaterializza o si amplia sempre più con le nuove forme di lavoro da remoto.
3. Consumi di massa e ambiente.
Può sembrare eretico per un lavorista, ma la iper-valorizzazione sociale del lavoro, o, per dirla con la Hanna Arendt, la glorificazione teoretica del lavoro, propria dei sistemi capitalistici avanzati, o turbo capitalistici, ha portato alla conseguenza che diritto del lavoro e diritto ambientale hanno finito per avere obiettivi ed esiti spesso in conflitto. Il diritto del lavoro si è occupato di produrre nuovi e migliori posti di lavoro; questo processo non poteva non essere guidato da una forte etica del consumismo.
E qui il discorso si amplia al mutamento di paradigma culturale.
Ci sono pochi dubbi sul fatto che i consumi di massa oggi sono identificabili come la principale determinante della crisi ambientale; e sul fatto che il consumo ostentativo prescinde ed è indipendente dalle reali esigenze della persona, ma è il mezzo per provare la propria capacità di spendere e quindi il proprio status.
A noi lavoristi questo discorso tocca da vicino quando parliamo di retribuzione sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost., che deve assicurare una vita libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia. Cosa significa infatti per le persone, nell’attuale modello socioeconomico consumistico, un livello di vita dignitoso? TV, frigo, auto, come era per i nostri padri? Non credo; forse possedere due telefonini e una vacanza ad Ibiza.
Come è stato affermato, la “mitizzazione” della produzione ha innescato una sorta di spirale perversa tra consumi–produzione–lavoro, che ha finito per scaricarsi con effetti, a volte drammatici, sugli stessi lavoratori, fungendo da moltiplicatore di bisogni, o meglio, sulla induzione edonistica di nuovi bisogni.
Sicché diritto del lavoro e diritto ambientale hanno finito per avere obiettivi ed esiti spesso in conflitto.
4. Diritto al lavoro e tutela della salute.
L’emersione di questa tensione ai massimi livelli giurisdizionali si è avuta con la ben nota sentenza ILVA n. 85/13 della Corte costituzionale.
In quel caso, il bilanciamento tra il diritto fondamentale all’ambiente sano e quello all’occupazione, sul presupposto che non esiste nella nostra Costituzione un diritto tiranno, ha portato la Consulta a ritenere legittima la prosecuzione dell’attività produttiva, pur inquinante, per un periodo temporaneo di 36 mesi, per consentire all’azienda di adeguarsi alla AIA, cioè all’atto di Autorizzazione Integrale Ambientale, avendo ritenuto che fosse proporzionale e ragionevole tale prosecuzione, proprio in conseguenza del contemporaneo percorso di risanamento ambientale, alla cui attuazione era subordinata l’autorizzazione al proseguimento dell’attività produttiva.
La Corte reputò in quel caso che non fossero “annientati completamente il diritto alla salute e ad un ambiente salubre a favore di quello economico e produttivo”, come invece dubitò il giudice remittente. Se fosse stato questo lo scenario, scrisse la Corte, ci si ritroverebbe di fronte alla violazione dell’art. 32 Cost., in quanto nessuna esigenza, per quanto costituzionalmente fondata, potrebbe giustificare la totale compromissione della salute e dell’ambiente, proprio perché non esiste un diritto tiranno che possa eliminare completamente l’altro diritto contrapposto. Ma ci si è chiesti: che significa questa affermazione? Ritenere tollerabile una certa soglia di tumori? La risposta risiede nel punto di bilanciamento: scegliendo di comparare il grave dissesto ambientale prodotto dall’ILVA, con quello che sarebbe scaturito per i livelli occupazionali a fronte della immediata chiusura dell’acciaieria, la Consulta ha situato questo bilanciamento in ragione della temporaneità delle limitazioni alla salute, sopportate nell’area di Taranto, e del fatto che esse venissero costantemente migliorate o fossero in via di miglioramento; solo in tal modo queste limitazioni potevano essere accettate per salvaguardare l’occupazione anche dell’indotto, così da assicurare un reddito sufficiente in un’area che maggiormente soffre la crisi economica.
Questa conclusione fa capire quale sia la forza di resistenza dell’interesse a mantenere il reddito, rispetto a quella ambientale, se si considera che esso è prevalso su aspetti inquietanti che pur incidono sulla vita dei lavoratori e delle loro famiglie: si pensi che quando soffia il vento a Taranto, le scuole frequentate dai figli dei lavoratori dell’ILVA vengono chiuse per via della dispersione nell’area delle polveri sottili prodotte dai parchi minerari della fabbrica e il Sindaco deve ordinare regolarmente il divieto di giocare nelle aree verdi, ecc.
È evidente che il punto di equilibrio di questo bilanciamento è a forte discrezionalità del decidente, che infatti ha cambiato idea sei anni dopo. Ma sulla giurisprudenza della Corte costituzionale negli ultimi decenni occorre intendersi: non se ne può esaltare la creatività o l’eccedenza del discorso politico su quello dell’interpretazione costituzionale per le decisioni politicamente più gradite, come nel caso delle sentenze che hanno controriformato le modifiche all’art. 18 Stat. lav., e poi lamentarsi di questa medesima invasione del potere legislativo, quando la decisione non è gradita. Le sentenze della Consulta a forte discrezionalità politica non sono più un caso isolato, confermando piuttosto un suo modo di agire, un suo “suprematismo giudiziario o una intrinseca politicità le sue decisioni”, per cui si è detto che essa non opera più come un osservatore imparziale che bilancia asetticamente beni e interessi rintracciabili nella Costituzione nella loro esatta dimensione, ma si pone come operatore politico, il quale, ancor prima di ricercare il ragionevole punto di equilibrio tra gli interessi in gioco, dovrà definire la propria posizione nella relazione con gli altri poteri, in questo modo evidenziando il carattere politico del suo oggetto.
Sulla prima sentenza ILVA vi è un aneddoto curioso che serve per allargare lo scenario e per concludere.
Mentre in Italia scoppiava appunto il caso ILVA, era il 2012, arrivava dalla Cina la notizia che sollevazioni del popolo avevano impedito l’installazione di due imprese inquinanti. Questo fece sperare in una sorta di primavera cinese poi invece prontamente repressa da quel regime.
Ma è interessante notare come il popolo cinese avesse ormai raggiunto un livello minimo di benessere tale da poter rifiutare una impresa inquinante; cosa che invece evidentemente non poteva permettersi la popolazione di Taranto: la Cina ormai sopravanza anche in questo alcune realtà occidentali.
Questa situazione serve anche per mettere in discussione una delle più diffuse teorie giustificazioniste nei confronti degli ex paesi emergenti, quando pretendono di continuare a svilupparsi “sfruttando” i lavoratori e l’ambiente, sostenendo che ora tocca a loro fare né più né meno quello che hanno fatto in passato i paesi ora più avanzati, in modo da poter competere da una posizione di vantaggio sul mercato globale grazie al minor costo del lavoro, ma anche al minor costo in termini di misure antinquinamento, imposte invece alle imprese dell’occidente, le quali sono indotte così a spostarsi negli “inferni” ambientali.
Questo poteva giustificarsi quando quelle popolazioni dovevano uscire dalla soglia della povertà. Non più ora, quando usano il dumping salariale e ambientale per imporre il loro dominio economico sul mondo. Il diritto del lavoro con scarso successo ha tentato di proteggere l’occupazione nei paesi occidentali mentre le economie emergenti attiravano imprese. È evidente che l’unica soluzione consiste nell’imporre regole comuni di tutela dell’ambiente a livello mondiale, altrimenti i costi delle transizioni li pagheranno solo i paesi virtuosi. L’Unione Europea è responsabile solo dell’8 per cento della produzione di anidride carbonica nel mondo. La Cina è il paese che oggi inquina di più al mondo: 28% del totale, 10 miliardi di tonnellate di CO2; l’India è al terzo posto, dopo gli USA, al secondo.
Alla Conferenza sui cambiamenti climatici che si è svolta a novembre a Sharm el-Sheikh non hanno partecipato né la Cina né l’India, e questo fa capire tutto.
Ed allora si comprende anche come il diritto del lavoro in questo scenario non può fare molto. Le autocrazie hanno gioco facile a sottrarsi a queste responsabilità per le future generazioni, in presenza di un occidente che è terrorizzato di veder minacciato il suo attuale livello di benessere iper-consumistico ed è molto poco disposto ad effettuare rinunzie anche minime nell’interesse delle nuove generazioni, tanto figli non ne fa, o ne fa molti pochi. E così si chiude in sé stesso e nel suo declino.