Di: Carlo Pisani
in Lavoro Diritti Europa 2021/2
Categoria: Sicurezza e ambiente di lavoro
TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. I prodromi dell’intervento legislativo.
Il Governo Draghi, con il d. l. 1° aprile 2021, n. 44, è finalmente intervenuto per disciplinare le conseguenze sul piano del rapporto di lavoro del rifiuto del vaccino da parte degli operatori sanitari, intesi nell’accezione più ampia riferita, non solo agli esercenti le professioni sanitarie, ma anche a tutti gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, socio sanitarie, e socio-assistenziali, pubblica e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali” (art. 4, comma1).
Ciò è avvenuto non tanto per il vivace dibattito tra i giuristi , ma sull’onda dell’indignazione che sollevavano le notizie mano a mano fornite dalle cronache di operatori sanitari no vax che avevano causato focolai di Covid negli ospedali e nelle case di riposo, che ha fatto scrivere, da ultimo, ad un editorialista equilibrato come Gramellini, sul Corriere della Sera, che “Nella hit parade delle cose allucinanti un posto di rilievo spetta a quei medici e infermieri ostili al vaccino che razzolano impavidi nelle corsie”.
L’Unione Europea, peraltro, ha messo del suo, in quanto, in una risoluzione approvata dall’Assemblea del 27 gennaio 2021, si può leggere che, per quanto riguarda “l’assorbimento” del vaccino “occorre garantire che i cittadini siano informati che la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno è politicamente, socialmente o altrimenti sottoposto a pressioni per farsi vaccinare, se non lo desidera farlo da solo” e che quindi occorre “garantire che nessuno sia discriminato per non essere stato vaccinato, a causa di possibili rischi per la salute o per non voler essere vaccinato”.
Come si può notare, si tratta di un “manifesto” assai poco opportuno per aiutare una campagna vaccinale che in Europa stenta a decollare e che conferma l’impressione della non felice gestione da parte dell’Unione Europea della vicenda dei vaccini, soffocata dalla burocrazia sanitaria e da “alti e grandeggianti valori”, come scrisse Irti, che impediscono l’indispensabile pragmatismo necessario per affrontare efficacemente l’emergenza su scala planetaria.
La burocrazia italiana non è stata da meno: basti pensare che nel piano vaccinale della Regione Lazio è scritto che l’adesione alla vaccinazione sarebbe “libera e volontaria” anche per il personale sanitario, senza alcuna distinzione e senza neanche accennare alle possibili conseguenze a cui può andare incontro detto personale sul piano del rapporto di lavoro. Non da meno l’Inail, che si è segnalata per aver riconosciuto la tutela assicurativa prevista per l’infortunio sul lavoro anche a quel personale infermieristico in servizio in ospedale che non aveva aderito alla profilassi vaccinale e che poi aveva contratto il Covid .
Comunque, prima dell’intervento legislativo, nonostante alcune prese di posizione un pò surreali, contrarie a qualunque imposizione, si era fatta strada l’idea che tali operatori dovessero essere comunque allontanati dal luogo dove svolgevano la loro attività; le differenze di opinioni emergevano, invece, più che altro sulle modalità con le quali poteva o doveva essere disposto tale allontanamento.
In attesa di una norma di legge specifica, uno dei provvedimenti “tampone” (tanto per rimanere in tema), adottati dai datori di lavoro, è stato quello di collocare in ferie l’operatore sanitario anche contro la sua volontà. Ad esempio, Il Tribunale di Belluno, con provvedimento del 19 marzo 2021 , ha rigettato un ricorso -presentato addirittura in via d’urgenza ex art. 700 cod. proc. civ.- con il quale alcune infermiere, che avevano rifiutato il vaccino loro offerto -quello stesso vaccino che magari avrebbe potuto salvare la vita a qualche ottantenne-, si lamentavano di essere state per questo motivo messe in ferie senza il loro consenso e in ciò avevano prospettato un pericolo “imminente ed irreparabile”. Il Tribunale -inspiegabilmente senza condannarle alle spese di giudizio- ha ritenuto “fatto notorio” che le mansioni di infermiera comportino un alto rischio di contagio per sé e per gli altri, con conseguente legittimità delle loro collocazione unilaterale in ferie, quale misura presa dal datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., poiché tale rischio viene a configurare quelle “esigenze dell’impresa” che attribuiscono al datore di lavoro stesso la facoltà di stabilire il tempo di fruizione delle ferie stesse, ai sensi dell’art. 2019 cod. civ.
Il problema ovviamente si riproponeva una volta terminate le ferie, in quanto l’“allontanamento” previsto dall’altra norma utilizzabile , l’art. 271 D.lgs. 81/2008, riguardante il rischio di esposizione ad agenti biologici, rischiava di non essere sufficiente o non perfettamente adattabile per fronteggiare le peculiarità delle fattispecie in esame, sia perché nel caso del Covid-19 non è il datore di lavoro che mette a disposizione il vaccino, bensì l’autorità pubblica , sia perché tale norma prevede, come unica misura, un allontanamento temporaneo che potrebbe anche comportare un trattamento retributivo di miglior favore per il lavoratore, qualora le uniche mansioni disponibile siano quelle inferiori.
2. L’obbligo ma anche l’onere del vaccino introdotto dal D.L.
Con il D.L. n. 44/2021, il Governo ha deciso di porre fine alle suddette incertezze, quantomeno per i soggetti di cui all’art. 4, comma 1, prevedendo espressamente l’obbligo di sottoporsi al vaccino e stabilendo altresì che tale vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio delle professioni e delle prestazioni rese dai suddetti soggetti (art. 4, c. 1).
Il rifiuto del vaccino, non giustificato da un “accertato pericolo per la salute” (comma 2), ed in assenza di mansioni alternative disponibili, anche inferiori, che non comportino contatti interpersonali o rischio di diffusione del contagio (comma 8), determina la sospensione dalla prestazione e dalla retribuzione (comma 6), fino al 31 dicembre 2021, o fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale (comma 9).
La norma ha introdotto in questo modo una duplice qualificazione per quanto riguarda la vaccinazione nell’ambito del rapporto di lavoro: non solo in termini di obbligo “al fine di tutelare la salute pubblica”, ma anche di requisito essenziale per lo svolgimento appunto di determinate attività, al fine di “mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle di cura e assistenza da parte dei suddetti soggetti”. In tal modo, la vaccinazione diventa anche una misura, tipizzata dalla legge, per l’adempimento dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 cod. civ. Questa duplice finalità – salute pubblica, sicurezza nel luogo di lavoro – ha consentito al legislatore di qualificare la vaccinazione anche come requisito essenziale per lo svolgimento delle suddette prestazioni, e quindi anche come un onere per i lavoratori.
Se la qualificazione della fattispecie è ineccepibile, la procedura è abbastanza farraginosa perché prevede una serie di comunicazioni dal datore di lavoro agli ordini professionali alla Regione e dalla Regione alla ASL, la quale, al termine di un mini-procedimento nei confronti del lavoratore “no vax”, in caso di ingiustificato rifiuto del vaccino, emana un atto di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale (art. 4, comma 6), che determina la sospensione “dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio”; di questo atto ne viene data comunicazione immediata all’interessato, al datore di lavoro e all’ordine professionale.
Ricevuto tale atto, il datore di lavoro, ove possibile, adibisce il lavoratore ad altre mansioni diverse da quelle che implicano contatti interpersonali o comportano comunque un rischio di diffusione del contagio. Le mansioni alternative possono essere anche inferiori, se sono le uniche disponibili, con corrispondente diminuzione della retribuzione.
Nel caso in cui non sia possibile questa sorta di repechage, la norma laconicamente si limita a prevedere che per il periodo di sospensione non è dovuta alcuna retribuzione; se ne arguisce che il lavoratore deve essere allontanato immediatamente dal luogo ove svolgeva l’attività, anche se la disposizione non lo stabilisce espressamente.
3. Il problema interpretativo riguardante i lavoratori esentati.
La nuova disciplina, che comunque rappresenta un notevole passo avanti rispetto alla precedente situazione di incertezza, prevede che la vaccinazione “non è obbligatoria e può essere omessa o differita” solo nel caso “di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale” (comma 2).Dai commi 5 e 6, si evince altresì, a contrario, che in questi casi la asl non può adottare l’atto di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo, né sono previste altre misure che il datore di lavoro debba adottare nei confronti dei lavoratori esentati.
Il problema però si pone egualmente perché il vaccino è richiesto come requisito essenziale per lo svolgimento di mansioni che, per i soggetti indicati nel comma 1, “implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, rischio di diffusione del contagio” (comma 6); ciò comporta che tale requisito sia necessario anche se il lavoratore non possa essere vaccinato per motivi di salute. In tal caso non si tratterà della violazione di un obbligo, dovendo qui essere esclusa la “colpa” del lavoratore; ma permarrà egualmente la situazione della mancanza di un “requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative” (comma 1), e quindi continueranno egualmente a sussistere, sia il pericolo “per la salute pubblica”, sia le non “adeguate condizioni di sicurezza per lo svolgimento delle prestazioni sanitarie e socio-assistenziali”, di cui al comma 1, giacchè per quell’operatore, vi è comunque il rischio elevato che egli possa contagiarsi e contagiare.
Dall’altra parte, però, la sospensione di cui al comma 6, sembra avere natura anche sanzionatoria, come parrebbe evincersi dal tenore letterale del comma 9 (“la sospensione mantiene efficacia fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale”), e quindi non potrebbe essere applicata anche nel caso del lavoratore incolpevolmente non vaccinato.
Senonchè il datore di lavoro sarebbe comunque investito della responsabilità di adottare “tutte le misure”, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., per la tutela dell’integrità fisica dei propri dipendenti, ivi compreso di quello del lavoratore esentato.
Sicché, un’interpretazione ragionevole dovrebbe far propendere comunque per un allontanamento anche di questo lavoratore, in quanto sarebbe irrazionale se la norma consentisse al soggetto esentato di continuare l’esercizio di una professione sanitaria rischiando di infettare se stesso e soprattutto i pazienti o degenti.
Si potrebbe ipotizzare in tal caso l’operatività della ordinaria disciplina della sopravvenuta inidoneità del lavoratore, sia pure interpretata in modo sistematicamente coerente con il decreto legge, e quindi con esclusione del licenziamento anche ove ne ricorressero gli estremi elaborati dalla giurisprudenza per tale fattispecie.
Sarebbe infatti parimenti irrazionale che l’ordinamento consentisse una conseguenza più svantaggiosa per il lavoratore che incolpevolmente non possa vaccinarsi rispetto a chi ha violato l’obbligo. Pertanto, dopo il giudizio di inidoneità del medico competente, qui necessario, potrebbero trovare applicazione le misure alternative della adibizione a mansioni differenti, anche inferiori, ma in questo caso con conservazione della superiore retribuzione, in applicazione anche analogica dell’art. 42 d.lgs. n.81/2008 oppure dell’art. 4, legge 12 marzo 1999, n. 68. In caso di indisponibilità di tali mansioni, sarà inevitabile ricorrere alla sospensione senza retribuzione, a meno che non si ritenga ammissibile, anche in tale ipotesi, il ricorso alla cassa integrazione in deroga con causale “emergenza Covid”, o addirittura fare applicazione analogica della disciplina della malattia in quanto qui si tratterebbe comunque di un lavoratore temporaneamente inidoneo per motivi di salute allo svolgimento della prestazione.
4. La rilevanza sistematica del D.L. per le altre mansioni ad alto rischio contagio: il vaccino come onere del lavoratore.
Il D.L. 44 rappresenta un importante passo in avanti in subjecta materia, ma non eliminerà tutti i problemi che si porranno man mano che i vaccini saranno disponibili per tutti quei lavoratori che svolgono mansioni ad alto rischio contagio per sé e per gli altri, e che non rientrano nell’ambito soggettivo di applicazione di tale decreto.
Non è condivisibile eludere il problema facendo leva sul brocardo ibi lex voluit dixit, ibi noluit tacuit, in quanto appare una eccessiva semplificazione ricavare da tale normativa il principio per cui, in tutti gli altri rapporti di lavoro, sia consentito, o non abbia alcuna conseguenza, il rifiuto del vaccino disponibile da parte del lavoratore a rischio, anche quando, cioè, vengono in rilevo le finalità di tutela analoghe a quelle individuate dall’art.4 comma 1, del D.L. n. 44/2021, riguardanti la “salute pubblica” e le “adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazioni delle prestazioni”. Il legislatore per ora si è limitato ad intervenire, non a caso con la modalità urgente del decreto legge, esclusivamente per quelle categorie di rapporti per cui il problema si stava ponendo in modo più pressante, riguardando la sanità e considerata la piena disponibilità dei vaccini solo in quel settore.
Ciò non significa negare la rilevanza sistematica del D.L., non solo in termini di qualificazione del comportamento del lavoratore con mansioni a rischio che rifiuta il vaccino, ma soprattutto per quanto riguarda le conseguenze di tale rifiuto. Se infatti la previsione della vaccinazione come requisito essenziale per lo svolgimento di determinate mansioni poteva essere desumibile anche dalla disciplina generale del rapporto di lavoro e da quella in tema di sicurezza, per quanto concerne invece le conseguenze dell’assenza di tale requisito, non può essere ignorata la previsione normativa della sola sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, che in tal modo ha tipizzato per legge gli effetti del rifiuto del vaccino anche per quanto attiene la mancanza dei requisiti che, quindi, a questo punto, diventano in re ipsa temporanei.
Alla luce di questa interpretazione sistematica si può pertanto ritenere confermato, su di un piano più generale, che, per i lavoratori addetti a mansioni ad alto rischio, la sottoposizione ad un vaccino disponibile si configura innanzitutto come un onere. Ciò in quanto l’essere vaccinato, nella situazione di estrema gravità della pandemia da Covid-19, può assumere la rilevanza di un requisito sanitario essenziale per lo svolgimento in sicurezza di determinate prestazioni lavorative , e financo incidere sul giudizio medico di inidoneità alle mansioni .
Dal punto di vista del contratto, un requisito soggettivo essenziale per lo svolgimento della prestazione si configura infatti come un onere a carico di chi deve possederlo o acquisirlo, come può essere, ad esempio, il porto d’armi per la guardia giurata, una patente speciale per l’ autotrasportatore, un titolo di studio, oppure la certificazione di un determinato stato di salute e di efficienza fisica, ad esempio, per lo sportivo professionista, oppure per il lavoratore che svolge mansioni particolarmente impegnative come, ad esempio, il sommozzatore o il pilota.
Nel caso del vaccino anti Covid, pur non essendo previsto, al di là dei soggetti indicati dal D.L., da alcuna norma espressa di legge o da un atto amministrativo o dal contratto individuale all’atto dell’assunzione, è ragionevole ritenere che il datore possa richiedere, come requisito per l’assunzione, un documento che attesti l’avvenuta vaccinazione: libero il candidato all’assunzione di non vaccinarsi o di non presentare tale attestato; libero il datore di non assumerlo, senza che possa prospettarsi al riguardo alcuna discriminazione o violazione dell’art. 8 Stat. lav. poiché qui il datore non effettua alcuna “indagine” e comunque si rientrerebbe nell’eccezione prevista dalla stessa norma, riguardanti i fatti “rilevanti ai fini della valutazione della attitudine professionale del lavoratore”, espressamente esclusi dal divieto di indagini, come confermato dalla sentenza della Corte costituzionale, che ha ritenuto indispensabile la deroga non prevista dal legislatore al divieto di indagini sulla sieropositività nei casi questa sia rilevante per il idoneità professionale del lavoratore, in considerazione del rischio di contagio connesso al tipo di mansioni .
Ma deve ritenersi che tale onere sia configurabile anche ove esso sia sopravvenuto nel corso del rapporto , proprio in relazione alla situazione giuridica dello stato di emergenza e sull’ovvio presupposto che il vaccino sia la misura più efficace per contrastare l’epidemia da Covid.
Per inquadrare correttamente il problema, l’interprete non può infatti prescindere dalla sua contestualizzazione a livello ordinamentale; deve quindi necessariamente fare i conti con lo stato di emergenza. Non si tratta di un modo di dire politico o giornalistico, ma è un vero e proprio vincolo giuridico che permea tutto l’ordinamento, da cui a cascata derivano una serie di conseguenze che non si esauriscono solo nella decretazione d’urgenza o nei dpcm che limitano libertà individuali, ma che funge anche da criterio interpretativo di ordine generale sia della legge che dell’autonomia negoziale privata.
Pertanto, in relazione a questo aspetto così delicato non si possono fare due pesi e due misure e non si può soffrire di strabismo: se l’emergenza è così grave, tanto da paragonarla ad una guerra e comunque tanto da limitare i diritti inviolabili di tutti noi riguardanti la libertà personale, per cui non possiamo uscire da casa dopo le ore 22, o altro, o da annullare i diritti economici di libertà, per cui il datore di lavoro non può licenziare da oltre un anno per motivi oggettivi; non si può poi improvvisamente dimenticare tutto questo quando si tratta di valutare sul piano del rapporto di lavoro le conseguenze che comporta il rifiuto del vaccino da parte del lavoratore addetto a mansioni particolarmente a rischio.
Sicché, il datore di lavoro ha l’interesse, giuridicamente tutelato, di evitare o ridurre, per quanto in suo potere, il rischio della diffusione del Covid-19 nell’organizzazione, affinché non si verifichino focolai o addirittura veri e propri “cluster”, con conseguente chiusura o sospensione dell’attività produttiva, nonché di evitare azioni di responsabilità da parte di dipendenti o di terzi, che abbiano contratto il contagio sul luogo di lavoro.
Inquadrare la fattispecie nella figura dell’onere e non in quella dell’obbligo comporta comunque che il lavoratore sia libero di non vaccinarsi, così come, nella sua vita privata, è, ad esempio, libero di non assumere antibiotici anche se il medico li ritiene necessari, oppure, più in generale, è libero di non prendersi cura della propria salute. Sicché il lavoratore non commette alcun illecito contrattuale con questa sua scelta. Tuttavia, il suo inserimento in una organizzazione lavorativa comporta che, se non vuole correre il rischio di vedersi rifiutata la prestazione dal datore di lavoro, con tutte le possibili conseguenze che ciò comporta, deve assolvere, appunto, all’ onere di vaccinarsi.
La figura dell’onere, spesso definito, con apparente ossimoro, “dovere libero,” rappresenta infatti lo strumento attraverso cui l’ordinamento impone al soggetto di tenere un determinato comportamento, se non vuole andare incontro a conseguenze per lui pregiudizievoli , che qui consistono, per il lavoratore, in quelle derivanti, sul piano del rapporto di lavoro, dall’assenza di un requisito soggettivo per svolgere le mansioni dedotte in contratto .
Interessante al riguardo la sentenza della Corte costituzionale, 6 giugno 2019, n.137, laddove ha affermato la legittimità costituzionale della legge regionale Puglia che prevede che la vaccinazione costituisca “un onere per l’accesso degli operatori sanitari ai reparti individuati con la delibera di Giunta”.
5. La sospensione dalla prestazione e dalla retribuzione per chi rifiuta il vaccino con mansioni a rischio e gli obblighi del datore di lavoro ex art 2087 cod. civ.
Soprattutto sulle conseguenze del rifiuto del vaccino per i lavoratori addetti a mansioni ad alto rischio contagio, che però non ricadono nell’ambito soggettivo di applicazione del D.L. n. 44/21, non si può ignorare la rilevanza sistematica della nuova normativa, che ha previsto, come unica conseguenza, in assenza di mansioni alternative, la sospensione dalla prestazione e dalla retribuzione fino al 31 dicembre 2021 (comma 9).
E’ pur vero che tale sospensione, più che un effetto pregiudizievole per il mancato assolvimento di un onere, come si è visto, sembra avere natura sanzionatoria per la violazione dell’obbligo, secondo il tenore letterale del comma 9 (“la sospensione mantiene efficacia fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale”). Tuttavia, l’interprete è condizionato dall’ indicazione sistematica per cui l’unica conseguenza prevista dalla legge del rifiuto del vaccino, in mancanza di repechage, consiste nella sospensione fino la 31 dicembre 20121 -o prima, se il lavoratore si decide a vaccinarsi-; è dunque anche qui è precluso ipotizzare una conseguenza pregiudizievole peggiorativa per il lavoratore che si trovi in situazioni analoghe a quelle prese in considerazione dal decreto, il quale, in sostanza, ha tipizzato, non solo una specifica sanzione per l’inadempimento del suddetto obbligo -preceduta da una richiesta di informativa da parte della Asl circa la documentazione dell’eventuale causale giustificatrice prevista dal comma 2-, ma anche l’effetto pregiudizievole per il lavoratore per il mancato possesso di tale requisito essenziale.
Neppure per quanto riguarda gli obblighi che sorgono in capo al datore di lavoro, può essere ignorata la rilevanza sistematica del D.L. n.44, in relazione alle misure che egli deve adottare nei confronti dei dipendenti con mansioni ad alto rischio contagio che rifiutano il vaccino disponibile ma che non rientrano tra i soggetti indicati dall’art. 4, comma 1, del decreto.
Pertanto si può ragionevolmente ritenere che, a fronte di tale rifiuto, sorge per il datore di lavoro un correlativo obbligo di adottare tutte le misure per la tutela dell’integrità fisica del lavoratore in questione e degli altri dipendenti, come gli impone l’art. 2087 cod. civ.; misure, queste, che il D.L. n. 44/2021, ha sostanzialmente predeterminato, imponendo di attuare la sospensione dalla prestazione e dalla retribuzione del lavoratore in questione, ove non siano possibili mansioni alternative che non implichino contatti interpersonali o che non comportino, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio.
Peraltro, non occorreva il D.L. per escludere che il datore potesse rimanere inerte in quanto soggetto su cui ricade la responsabilità finale della tutela della salute dei suoi dipendenti. Sicchè la suddetta condotta del datore di lavoro acquisisce i connotati della doverosità, come adempimento dell’obbligo di sicurezza previsto dall’art. 2087 cod. civ. .
In queste ipotesi, la mancata iniziativa del datore di lavoro, determina o aggrava la sua responsabilità nei confronti dei soggetti danneggiati dal lavoratore che non si è voluto vaccinare (artt. 2087, 1228 e 2049 cod. civ.). L’imprenditore, infatti, è obbligato anche ad esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di prevenzione e sicurezza (art. 4, lett. c), D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547), ed è responsabile sia quando omette di adottare misure protettive, sia quando non accerti e vigili che le misure vengano effettivamente osservate dal lavoratore , come ribadito anche di recente dalla Cassazione, proprio in riferimento ad una infezione contratta da un sanitario di un Policlinico, laddove afferma che “la violazione del dovere del neminem laedere può consistere anche in un comportamento omissivo in relazione a una specifica situazione che esiga una determinata attività, a tutela del diritto altrui, per cui è da considerare responsabile il soggetto che ometta di intervenire” .
Come si sa, l’art. 2087 è una vera e propria norma di chiusura del sistema di prevenzione nel luogo di lavoro, operante cioè anche in assenza di specifiche regole di esperienza preesistenti e collaudate . Alla luce dell’ampiezza degli obblighi derivanti da questa norma che gravano sul datore, non è neppure rilevante, o comunque non è decisivo, prendere posizione sul fatto se il soggetto vaccinato non solo non si ammali ma inoltre non sia più in grado di trasmettere il virus in quanto, anche se non vi siano certezze su questo ulteriore beneficio del vaccino, il datore di lavoro è comunque tenuto ad adottare tutte le misure a sua disposizione per evitare che il dipendente non contragga, lui, il Covid nel luogo di lavoro, oltre che ovviamente non lo trasmetta.
Al riguardo, il D.L. n. 44/2021 ha fatto chiarezza, prevedendo che la sottoposizione alla vaccinazione per determinate mansioni a rischio è finalizzata “a mantenere adeguate condizioni di sicurezza” nell’effettuazione di quelle prestazioni. Anche qui, quindi, si può fare ricorso all’analogia ritenendo che il medesimo obbligo si estenda sui lavoratori che non rientrino espressamente nell’ambito di applicazione soggettivo del decreto, ma che presentino simili rischi di contagio. Pertanto, l’inadempimento di tale obbligo da parte del lavoratore fa sorgere, a sua volta, in capo al datore di lavoro, l’obbligo di allontanare quel lavoratore dalle sue mansioni, applicando, anche qui per analogia, le conseguenze previste dal D.L. n. 44/2021.
Né sembrano prospettabili questioni di costituzionalità in quanto, il necessario e razionale bilanciamento tra il diritto di libertà del lavoratore di non vaccinarsi e la tutela del diritto alla salute degli altri, impone di dare prevalenza a quest’ ultimo, in base al criterio della proporzionalità, in termini di costi e benefici, tra i vari “principi” in gioco e dei sacrifici dei diritti contrapposti. Non basta quindi invocare il diritto di rifiutare trattamenti sanitari quando, in piena emergenza, è necessario il contemperamento con il diritto alla salute degli altri.
In questo contesto è interessante la lettura della sentenza della Corte costituzionale n. 85/ 2013 sul caso Ilva, in cui si precisa che tutti i diritti fondamentali tutelati nella Costituzione si trovano in rapporto di “integrazione reciproca” e non è possibile, pertanto, individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata. Se così non fosse si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette. Si evince, dunque, da questa sentenza, che il principio di ragionevolezza deve essere integrato con quello di proporzionalità, per evitare quella che già Carl Schmidt definiva la “tirannia dei valori”. Sicché, nella presente situazione di piena emergenza, il combinato disposto di entrambi questi principi, fa propendere per la soluzione secondo cui il diritto di libertà del singolo di non vaccinarsi, in particolari e ben specifiche situazioni, deve cedere nei confronti dei valori d’insieme della collettività sia alla salute sia di carattere economico.