Intervento del Prof. Avv. Carlo Pisani su La Repubblica Roma, 27 aprile 2024. Il Professore si sofferma su alcuni aspetti prioritari che dovrà affrontare il diritto del lavoro: legge sulla rappresentatività sindacale, salario minimo, tutela previdenziale per le nuove generazioni.
Lo Studio Legale Carlo Pisani e Associati, con sede a Roma e Castelli Romani, fornisce assistenza specialistica stragiudiziale, arbitrale e giudiziale in materia di diritto del lavoro, sindacale e previdenziale. Tra le attività e pubblicazioni, il professore e avvocato Carlo Pisani si è voluto soffermare sui motivi che spingono verso il salario minimo, nell’ottica di verificare se le proposte di legge offrono risposte coerenti.
NEL DETTAGLIO DELLA CRITICITÀ
La domanda da porsi, in primis, è: da quali criticità nasce l’idea di una legge sul salario minimo? I motivi sono di due tipi.
Innanzitutto, la crisi di rappresentatività del sindacato, e dalle incertezze sui contratti collettivi da applicare, e dalla loro crescente frammentazione; dalla conseguente moltiplicazione dei C.C.N.L. applicabili alle stesse categorie e spesso al ribasso rispetto agli standard previsti dai contratti collettivi stipulati dalle O.O.S.S. maggiormente rappresentative, con la riemersione di un fenomeno dei contratti pirata iniziato una ventina di anni fa. In definitiva, si vuole estendere a tutti l’applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle O.O.S.S. per evitare così contratti collettivi “pirata” e costringere i datori di lavoro non associati ad applicare integralmente il C.C.N.L. e non solo i minimi salariali, che già gli assicura il giudice mediante il combinato disposto dell’art. 36 della Costituzione e 2099, comma 2, del Codice civile. Questo aspetto si potrebbe risolvere, in modo più coerente, con il principio di libertà sindacale, ex comma 1, art. 39, attuando il 39, commi 2-3-4, oppure modificandolo, ma comunque dando efficacia erga omnes ai contratti collettivi stipulati dalle O.O.S.S. più rappresentative per ciascuna categoria.
Con la consacrazione costituzionale della figura del contratto collettivo erga omnes, poi, esso appare il naturale strumento per la fissazione dei minimi di trattamento retributivo di applicazione generale e, nello stesso tempo, adeguati alla realtà produttiva dei diversi settori. Infatti, sulla base dei principi espressi dalla Consulta, un sistema di legislazione sui minimi dovrebbe innanzitutto fare i conti con l’art. 39 della Costituzione. La Corte Costituzionale, a cominciare dalla sentenza n. 106/62, ha ripetutamente ammonito (a proposito della l. Vigorelli n. 741/59), che non è possibile un sistema di estensione erga omnes del contratto collettivo “con forme e procedure diverse da quelle previste dal 39 della Costituzione”. Questo assetto costituzionale fa del nostro ordinamento un unicum nel panorama europeo, caratterizzato da una matrice autonomistica dell’autonomia collettiva, resistente a interventi legislativi soprattutto nei rapporti collettivi e che ha radici profonde nella nostra storia sociale e politica, che differenziano le nostre vicende da quelle della maggior parte degli altri paesi. Peraltro è significativo che, fin dalle prime elaborazioni teoriche, la previsione di un salario minimo legale doveva avere la funzione di garantire una tutela adeguata in situazioni prive di copertura sindacale, oppure in settori in cui le tariffe salariali fossero troppo basse. Questo obiettivo ha trovato riscontro nell’evoluzione storica della legislazione sui minimi, che si è sviluppata per lo più in contesti di relazioni sindacali ed economiche deboli. I paesi con sistemi di relazioni industriali forti e con contrattualizzazione centralizzata, dalla Germania ai paesi scandinavi, fino all’Italia, hanno sentito meno il bisogno di questa compensazione e, non a caso, sono quelli che hanno resistito di più all’introduzione di una legislazione sui minimi salariali. In questo scenario, in Italia un intervento legislativo sui salari si è reso necessario soltanto in settori marginali o esterni al sistema di relazioni industriali, come ad esempio per il lavoro a domicilio o per quello dei soci di cooperativa nonché, più recentemente, per le collaborazioni coordinate e continuative e, infine, con modalità diverse per i lavoratori distaccati.
Tornando alla domanda iniziale, il secondo motivo è un’asserita insufficienza delle retribuzioni globali di fatto previste nel livello più basso dei C.C.N.L., stipulato dalle O.O.S.S. maggiormente rappresentative, in violazione dell’art. 36 della Costituzione, considerato che non tiene conto del differente costo della vita nelle varie zone paese. In sostanza, non si ha fiducia che il C.C.N.L. sia in grado di stabilire un salario minimo che assicuri ai lavoratori un’esistenza libera e dignitosa per sé e la famiglia. In alternativa al salario minimo, si potrebbe pensare di ridurre il cuneo fiscale quantomeno per i livelli più bassi. Ma le risorse sono limitate e si deve scegliere a chi distribuirle.
La tutela degli interessi delle nuove generazioni
In uno dei suoi interventi, Carlo Pisani ha voluto evidenziare come diritto del lavoro possa incidere molto per la tutela degli interessi delle nuove generazioni.
PENSIONI E AMBIENTE
Secondo il professore, uno degli interessi su cui i lavoristi possono (e anzi devono) dire qualcosa, è quello di assicurare ai giovani la possibilità di godere di un trattamento pensionistico al termine della loro vita lavorativa, come ne hanno potuto godere le generazioni precedenti.
Per quanto riguarda la questione ambientale, invece, l’idea novecentesca del diritto del lavoro è di un sistema normativo chiuso, centrato sull’obiettivo di un accrescimento dei livelli di tutela del lavoratore subordinato. Il dato della responsabilità sostenibile è stato perciò rimosso dal suo statuto epistemico e assiologico, preferendo inseguire l’aumento del PIL, l’aumento dell’occupazione e la preservazione dell’ambiente. Ecco che allora è importante che l’imprenditore, oggi, si faccia carico delle conseguenze sociali della sua inefficienza, e prima ancora, possibilmente le prevenga.
Ci sono pochi dubbi, poi, sul fatto che i consumi di massa siano identificabili come la principale determinante della crisi ambientale; e sul fatto che il consumo ostentativo prescinde ed è indipendente dalle reali esigenze della persona, ma è il mezzo per provare la propria capacità di spendere e quindi il proprio status. Come è stato affermato, la “mitizzazione” della produzione ha innescato una sorta di spirale tra consumi–produzione–lavoro, che ha finito per scaricarsi con effetti, a volte drammatici, sugli stessi lavoratori, fungendo da moltiplicatore di bisogni, o meglio, sulla induzione edonistica di nuovi bisogni. E così, diritto del lavoro e diritto ambientale hanno finito per avere obiettivi ed esiti spesso in conflitto.
L’emersione di questa tensione ai massimi livelli giurisdizionali si è avuta, per concludere, con la ben nota sentenza ILVA n. 85/13 della Corte costituzionale. La Corte reputò in quel caso che non fossero “annientati completamente il diritto alla salute e ad un ambiente salubre a favore di quello economico e produttivo”, come invece dubitò il giudice remittente.
Una situazione che serve anche per mettere in discussione una delle più diffuse teorie giustificazioniste nei confronti degli ex Paesi emergenti, che pretendono di continuare a svilupparsi “sfruttando” sia i lavoratori che l’ambiente stesso.
APPROFONDIMENTO
Il lavoro autonomo nell’organizzazione del committente
Nell’immaginario collettivo si pensa che il rapporto di lavoro autonomo sia sempre e comunque caratterizzato dall’assenza di vincoli di ogni genere. In realtà, il lavoro autonomo nell’organizzazione altrui, come nel caso del personale delle case di cura, si esplica nella “collaborazione” fra le parti, per cui l’etimologia stessa rivela che si tratta di un lavorare insieme al committente. La collaborazione, a sua volta, si attua mediante il coordinamento che, se unilaterale, produce l’effetto
dell’applicazione della disciplina del lavoro subordinato (art. 2 del d.lgs. 81/2015), se è consensuale invece rimane al di fuori di tale disciplina (art. 409, n. 3, c.p.c.).
La fattispecie del lavoro autonomo coordinato e continuativo, quindi, non è altro che la regolamentazione di questo collaborare del lavoratore autonomo, in cui si riflette l’interesse delle parti all’integrazione stabile e duratura della collaborazione nell’organizzazione produttiva, con livelli di autonomia organizzativa del collaboratore variabili ma mai totali, perché se venisse meno la dicotomia soggetto coordinante/soggetto coordinato, non ci sarebbe più un’organizzazione e
ci troveremmo nell’altra tipologia di lavoro autonomo che non si svolge in modo continuativo nell’organizzazione altrui. Il dato letterale della nozione di coordinamento contenuta nella norma di cui all’art. 409 c.p.c. evidenzia però una criticità: tutto quello che non viene pattuito dev’essere lasciato all’autonoma organizzazione del lavoratore.
Eppure, la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che disposizioni e direttive sono ineliminabili nell’inserimento di un’attività nell’organizzazione del lavoro, e si configurano quale semplice potere di sovraordinazione e coordinamento tipico dei rapporti di parasubordinazione. Accade, allora, che mentre la dottrina teorizza un ossimorico coordinamento “panconsensualistico”, coadiuvata dal tenore testuale della norma, per far sparire il coordinamento come potere unilaterale, la Cassazione continua a emettere sentenze che, ad esempio, ritengono compatibile con il lavoro autonomo coordinato l’imposizione di turni di lavoro da parte del committente, in quanto espressione di un potere connaturale alla prestazione che non costituisce un indice della subordinazione.