Con la sentenza n. 128 del 16 luglio 2024 (relatore Amoroso), la Consulta, con sentenza additiva, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui non prevede che si applichi la tutela reintegratoria “attenuata” a risarcimento limitato a massimo 12 mensilità, anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per insussistenza del fatto materiale.
La Corte, tuttavia, opera un’importante distinzione in quanto esclude comunque la tutela della reintegrazione nel caso in cui il licenziamento per motivi oggettivi sia ingiustificato solo per la violazione dell’obbligo di repechage in quanto in tal caso si continua ad applicare la tutela indennitaria.
Invece, nel caso in cui il fatto materiale posto a base del motivo oggettivo del licenziamento sia insussistente, ad esempio quando il posto di lavoro non sia stato effettivamente soppresso, la mancata previsione della reintegrazione da parte dell’art. 3, secondo la Corte, è in violazione degli artt. 3, 4 e 35 Cost., determinando un’irragionevole differenziazione rispetto alla parallela ipotesi in cui sia insussistente il fatto contestato ai fini della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo. Infatti, se il fatto materiale allegato dal datore a fondamento del licenziamento non sussiste, risulta violato il principio della necessaria causalità del recesso datoriale, sia nel caso di licenziamento disciplinare che per motivi oggettivi.
In sostanza, il Giudice delle leggi ha stabilito che il recesso datoriale, necessariamente qualificabile come negozio unilaterale e caratterizzato per la tipicità della causa (“giusta causa” ex art. 2119 c.c. ovvero giustificato motivo ex art. 1 della l. n. 604 del 1966), implicherebbe l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata, in ordine all’assunto che l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento economico, escluderebbe la validità del licenziamento per difetto dell’elemento costitutivo causale, e cioè l’inesistenza del fatto importerebbe la relativa inesistenza della giustificazione, la quale si limiterebbe alla pretestuosità o alla mera apparenza, in via del tutto analoga a quanto già previsto per il giustificato motivo soggettivo.
Pertanto, da un punto di vista applicativo, per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 è applicabile la tutela della reintegrazione a risarcimento limitato nel caso in cui il datore di lavoro non riesca a provare la soppressione del posto del lavoratore o il nesso di causalità tra il posto soppresso e il lavoratore licenziato. Invece, è applicabile la sola tutela indennitaria da 6 a 36 mensilità laddove il datore di lavoro dimostri la soppressione del posto ma non riesca a dimostrare l’impossibilità della ricollocazione del lavoratore in violazione dell’obbligo di repechage.
Con sentenza n. 129 del 16 luglio 2024, la Consulta, ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui non prevede l’applicazione della tutela reintegratoria anche nell’ipotesi del licenziamento comminato per un fatto per cui il contratto collettivo prevede solo una sanzione conservativa.
Si tratta, però, di una sentenza interpretativa di rigetto per cui la non fondatezza della questione è nei limiti indicati dalla sentenza stessa, che nella sostanza ha anch’essa un contenuto additivo.
Infatti, secondo la Corte, l’art. 3, comma 2, deve essere interpretato, affinché sia conforme a Costituzione, nel senso che deve ritenersi equiparato alla insussistenza del fatto materiale, con conseguente applicazione della reintegrazione, anche la fattispecie del licenziamento disciplinare in cui il fatto sussista ma esso sia stato previsto dal contratto collettivo come specifica e tipizzata inadempienza meritevole di sola sanzione conservativa.
Più in particolare, la Corte, dopo aver ripercorso l’evoluzione del regime sanzionatorio del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, afferma l’infondatezza delle questioni di costituzionalità rispetto agli artt. 2, 3, 4, 21, 24, 35, 36, 40 e 41 Cost., in ragione del fatto che la reintegra non costituisce l’unico modello predisposto per la tutela avverso i licenziamenti illegittimi e risultando la scelta del regime rimediale attratta nella discrezionalità del legislatore, purché esso risulti adeguato e sufficientemente dissuasivo, quale risulta essere la tutela indennitaria da 6 a 36 mensilità.
Con il d.lgs. n. 23 del 2015, si è prodotto il contingentamento dell’alveo applicativo della tutela reale “attenuata”, e non soltanto eliminando la reintegrazione nel giustificato motivo oggettivo, ma ulteriormente limitandola nel giustificato motivo soggettivo, non menzionando le tipizzazioni di proporzionalità dei contratti collettivi e, dunque, residuando esclusivamente l’inesistenza del fatto presupposto.
La questione sottoposta alla Consulta, dunque, pretendeva risposta rispetto alla conformità a Costituzione di licenziamenti emanati in ragione di un inadempimento, punito con mera sanzione conservativa dal CCNL applicabile al rapporto individuale.
Oltre l’infondatezza dell’eccesso di delega in violazione dell’art. 76 Cost., la Corte si preoccupa di interpretare in via sistematica ed in maniera costituzionalmente orientata l’art. 3, comma 2 ravvisando che non sussiste contrasto, quantomeno nell’interpretazione qualificata della Consulta, con l’art. 39 Cost.
La Corte addiviene, in sostanza, ad una interpretazione complessa della norma in esame, precisando che non debba procedersi con declaratoria di incostituzionalità nei casi in cui è possibile un’interpretazione costituzionalmente conforme della norma oggetto del vaglio.
Più in dettaglio, il Giudice delle leggi afferma che il contingentamento di tutela reale, avvenuto nel passaggio tra la legge n. 92 del 2012 e il d.lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla diversa tipizzazione contrattuale, non faccia venire meno la necessità di applicazione della reintegrazione poiché l’esplicitazione di una condotta illecita del lavoratore che sia punita conservativamente, in virtù dell’applicazione del contratto collettivo che la dispone al rapporto individuale, sarebbe parimenti inquadrabile nell’insussistenza del fatto, in quanto la volontà delle parti sociali di attribuire a quella condotta una valenza non notevole, e tale da non giustificare la volontà recessiva del datore, sarebbe ab origine inidonea a far cessare il rapporto, in quanto verrebbe meno il presupposto giustificativo, convenzionalmente escluso dalla contrattazione.
La locuzione “resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” all’art.3, comma 2, allora, deve interpretarsi come ostativa all’applicazione della reintegrazione solo con riferimento alle clausole generali o vaghe dei CCNL rispetto alla proporzionalità tra sanzione ed inadempimento, non potendosi in essa includere anche le tipizzazioni specifiche previste dai contratti collettivi, in quanto ogni diversa interpretazione sarebbe in contrasto con l’art. 39, comma 1, Cost.
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