I tentativi di ampliare l’ambito di applicazione della disciplina del lavoro subordinato mediante il vizio endemico della stratificazione normativa
Di : Carlo Pisani
Lavoro Diritti Europa
Numero 1 / 2023
Pubblicato: 21 Febbraio 2023
*Intervento al Convegno “Diritto del lavoro dalle origini ai giorni nostri” presso Università “La Sapienza” di Roma del 24/11/2022.
Le riflessioni che seguono prendono lo spunto dagli scritti del Prof. Pino Santoro Passarelli -contenuti nella sua bella raccolta di saggi, che si è arricchita di un quarto volume-, ed in particolare dai suoi studi sulle collaborazioni coordinate e continuative, di cui l’Autore è stato un precursore con la sua nota monografia sul lavoro parasubordinato.
È ormai convinzione diffusa che, almeno per quanto concerne il rapporto di lavoro, l’analisi di quello che è stato il suo cammino a partire da quando ha raggiuto il suo apogeo in termini di tutele per il lavoratore, e cioè nel 1973, dopo lo Statuto dei lavoratori e il processo del lavoro, non possa prescindere dalla chiave di lettura in termini di tecniche, appunto, di tutela.
Al riguardo è facile osservare che la preliminare e fondamentale forma di tutela “presupposto” del lavoratore consiste nella tecnica di qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato, attuata mediante una norma a precetto generico che risale ancora al paradigma barassiano e agli elementi costitutivi della fattispecie prevista dall’art. 2094 del codice civile del 1942, basata sulla collaborazione alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro.
Poiché tale tecnica qualificatrice costituisce la chiave di accesso a tutte le tutele, è riscontrabile una sorta di tendenza espansiva sia da parte del legislatore che della giurisprudenza, che però hanno seguito strade differenti.
La giurisprudenza ha adottato la tecnica di facilitare la prova gravante sul lavoratore degli elementi della fattispecie dell’art. 2094, ed in particolare della sottoposizione al potere direttivo, mediante l’elaborazione della c.d. “subordinazione attenuata” che comporta la (iper)valorizzazione dei c.d. elementi secondari, ma più precisamente “indizianti”, di tale subordinazione, fino a farli diventare, in alcuni orientamenti, elementi costitutivi della fattispecie che quindi in un certo senso vivono di vita propria.
Il legislatore invece ha preferito adottare la tecnica di restringere – fino forse a portarla ad estinzione- quell’area del lavoro autonomo c.d. parasubordinato che si colloca a confine con il lavoro subordinato, in quanto presenta la caratteristica ad esso comune dell’inserimento continuativo del collaboratore nell’organizzazione altrui.
Purtroppo, i più recenti interventi in tal senso del legislatore paiono confermare un vizio atavico dell’ordinamento lavoristico, che Giugni definì della “stratificazione alluvionale” tra norme “malfatte” che poco o nulla si raccordano tra loro, in quanto è dal 2003 che si susseguono modifiche normative riguardanti tale ambito, dapprima con il decreto legislativo 276/2003, ancora più appesantito con la legge 92/2012, e poi con l’art. 2, d. lgs. n. 23/15, e quindi con l’art. 15, l. n. 981/19, determinando quello che è stato definito “l’ingorgo delle fattispecie”.
Gli interventi in questa materia solitamente sono stati ricondotti ad una ratio ante-elusiva nei confronti dell’abuso del ricorso al lavoro parasubordinato -come ribadito, da ultimo, da Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663, – visto come via di fuga dalle tutele del lavoro subordinato.
Tuttavia, questa finalità non sembra attagliarsi perfettamente nei confronti dell’ultimo – o, meglio, penultimo – intervento legislativo in materia, e cioè all’art. 2, d. lgs. n. 81/15, in quanto esso, almeno nelle intenzioni, sarebbe diretto ad estendere l’applicazione della disciplina prevista per il lavoro subordinato anche a rapporti di lavoro che non presentino tutti gli elementi costitutivi previsti dalla fattispecie di cui all’art. 2094 cod. civ.; la tecnica antielusiva dovrebbe essere invece finalizzate all’emersione di un autentico rapporto di lavoro subordinato, qualificato dalle parti invece come rapporto autonomo coordinato e continuativo.
Senonché il problema principale sollevato da questa norma -sulla cui interpretazione si è divisa la dottrina-, risiede nella sua (mal fatta) formulazione letterale in quanto, anche nella sua versione “corretta” ed edulcorata rispetto a quella originaria , essa, nel prevedere, pur sempre e comunque, che il collaboratore sia sottoposto al potere di organizzazione del committente per quanto riguarda “le modalità di esecuzione della prestazione”, sia avvicina, e per non pochi interpreti si identifica, con la previsione dell’art. 2104, comma 2 cod. civ., relativa alle “disposizioni del datore di lavoro per l’esecuzione del lavoro”, che, a sua volta, specifica quella più generica della sottoposizione alle “direttive” dell’imprenditore, di cui all’art. 2104 cod. civ.
Ma c’è di più. Non solo la disposizione è parsa sostanzialmente inutile ai fini dell’estensione della disciplina del lavoro subordinato, ma addirittura, o peggio, è sembrata di portata più restrittiva rispetto all’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 2094 cod. civ., concernente la subordinazione attenuata. Infatti, la suddetta locuzione normativa sembra aggravare l’onere probatorio gravante sul collaboratore, nella misura in cui egli deve fornire la prova che la sua prestazione è stata organizzata dal committente fin nelle sue “modalità di esecuzione”, mentre la giurisprudenza sulla subordinazione attenuata si accontenta di qualcosa (o, a volte, di molto) di meno rispetto a quanto prescritto dall’art. 2, d. lgs. n. 81/15, ritenendo sufficiente, per accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, l’esistenza anche solo di un paio di c.d. indizi secondari o indizianti, tra quelli comunemente utilizzati, quali la continuità, l’inserimento, l’orario fisso, l’assenza degli strumenti di lavoro da parte del collaboratore, di cui è comunque più agevole la prova.
Al riguardo è significativo che l’unica sentenza per ora pronunciatasi sull’art. 2, cit. , Cass. n. 1663/20, dopo aver ribadito che l’intento della norma in questione è stato quello di “rendere più facile” l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, sembra sorvolare sul problema della rilevanza degli indici secondari rispetto alla suddetta disposizione, limitandosi ad osservare che essa avrebbe valorizzato solo “taluni indici fattuali ritenuti significativi (personalità, continuità, etero organizzazione) e sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato”.
Per quanto concerne questa sorta di giuridificazione di taluni indici secondari della subordinazione, ipotizzata dalla Suprema Corte, si deve però osservare che, quanto al requisito della prestazione esclusivamente personale, esso è stato soppresso dalla modifica della l. n. 128/ 2019; quanto alla continuità, si tratta di una caratteristica comune ad entrambi i rapporti di lavoro subordinato e autonomo coordinato e appunto continuativo; sicché il vero discrimine rimane sempre l’etero organizzazione, in cui contenuti, però, come si è visto, assomigliano di più a una delle modalità con le quali può manifestarsi il potere direttivo (Nogler; Mazzotta; Ghera), almeno fino a quando si intenda rimanere “dentro i cancelli delle parole della legge” (Irti).
Ciò conferma che la formulazione letterale dell’articolo 2 sembra andare in controtendenza soprattutto rispetto all’elaborazione giurisprudenziale sulla subordinazione attenuata, facendo riemergere una concezione più aderente alla tradizionale configurazione dell’eterodirezione, come recentemente ripresa anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 76 del 2015, o anche da quel filone della giurisprudenza della Suprema Corte che ha rivalutato il carattere di elemento indefettibile del potere direttivo nel giudizio qualificatorio di sintesi (Cass. 1° marzo 2018, n. 4848).
Per eliminare il suddetto paradosso si dovrebbe dare ingresso, anche in relazione all’art. 2, agli indici presuntivi utilizzati per l’accertamento della subordinazione, da cui evincere la prova della sottoposizione del collaboratore al potere di eterorganizzazione dai contenuti sopra illustrati. Il che, da un lato, confermerebbe che il fatto “ignoto” da provare è lo stesso della eterodirezione tipica della subordinazione; dall’altro, riproporrebbe i ben noti problemi in termini di incertezza derivanti dall’(ab)uso a volte poco consapevole da parte della giurisprudenza di tali indici. Sicché ben si adatta al nostro tema il noto aforisma del Gattopardo “tutto cambia perché nulla cambi”.
Ad accentuare le incertezze sistematiche è intervenuta la nozione normativa di coordinamento (art. 15, l. n. 81/17), che ha aggiunto un periodo all’art. 409, n. 3, cod. proc. civ., in cui si specifica che la collaborazione di intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa.
È balzato subito evidente il problema sistematico di interpretazione di questa nozione molto restrittiva di coordinamento con il requisito previsto dall’art. 2, relativo all’eterorganizzazione delle modalità di esecuzione della prestazione. Infatti, il nuovo art. 409, n. 3, cod. proc. civ., sembra escludere qualsiasi potere di coordinamento e di ingerenza unilaterale da parte del committente, contrariamente a quanto in precedenza ritenuto -anche dalle sezioni unite (sentenza n. 1545/2017) e dalla Corte costituzionale (n. 76/2015) – sulla compatibilità con la fattispecie del lavoro autonomo di un potere giuridico del committente in ordine alla modalità di raccordo funzionale con le esigenze organizzative ivi compresi quelli di “istruzione” (Proia, Persiani, De Luca Tamajo, Marazza, Ferraro). Del resto, è intuitivo, come precisato condivisibilmente da Mattia Persiani, che il concetto di coordinamento presuppone che ci sia un soggetto coordinante e uno coordinato, e cioè, un soggetto che esercita un potere, sia pure diverso dal potere direttivo, e un soggetto che a quel potere è assoggettato; anche Santoro Passarelli, nel quarto volume dei suoi scritti (Realtà e forma nel diritto del lavoro, Tomo IV, Giappichelli, p. 142) riconosce che con questa norma, “il coordinamento cessa di essere un potere unilaterale”, e, dunque, cessa di essere un coordinamento.
Probabilmente non vi è piena consapevolezza che in tal modo i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa verrebbero ricondotti interamente, senza alcuna differenziazione, al contratto d’opera “puro”, o in senso stretto, ex art. 2222, cod. civ., con l’unica caratterizzazione di essere un contratto di durata, o comunque con prestazione durevole o ripetuta o empiricamente prolungata nel tempo, ma senza ulteriori differenze in materia di poteri di ingerenza del committente. Tant’è vero che Luca Noegler ha parlato di “sconfitta del tertium genus”.
Anzi, ciò determinerebbe un ulteriore paradosso, in quanto il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa diventerebbe addirittura la variante più autonoma del contratto d’opera classico ai sensi dell’art 2222, cod. civ, nella misura in cui non contemplerebbe neppure i poteri c.d. di istruzione da parte del committente, espressamente previsti in alcuni contratti di lavoro autonomo come il trasporto (art. 1685 cod. civ. ), il deposito (art. 1770 cod. civ.), il mandato (art. 1711 cod. civ.), l’agenzia (art. 1746 cod. civ.).
Questa, nella sostanza, è l’operazione interpretativa anche di Cass. n. 1663/20, come emerge dal punto 53 della motivazione, in cui si afferma che “nelle collaborazioni non attratte nella disciplina dell’art. 2, le modalità di coordinamento sono stabilite di comune accordo tra le parti, mentre nel caso preso in considerazione da quest’ultima disposizione, tali modalità sono imposte dal committente”.
Dal che si deve evincere, sul piano delle conseguenze, che, a fronte di eventuali ingerenze del committente, il rapporto non può che essere qualificato come subordinato, anche se l’intensità di tali ingerenze non dovessero raggiungere la “soglia” del potere direttivo di cui all’art. 2094 cod. civ. Ciò in quanto in tale ipotesi, non essendo più configurabile un lavoro “coordinato”, non resterebbe altro che un lavoro “subordinato”, giacché non sono previste altre fattispecie intermedie.
Di qui un’ulteriore “asimmetria”, questa volta rispetto a quanto disposto dall’art. 2, d. lgs. n. 81/15, in quanto verrebbe applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato al verificarsi di ingerenze del committente anche blande, come ad esempio, istruzioni funzionali appunto al coordinamento, che non raggiungano neppure la soglia dell’eterorganizzazione delle modalità di esecuzione della prestazione richiesta da detto art. 2.
In tal modo, una volta che il coordinamento, quale tratto distintivo della parasubordinazione, viene ad essere così svuotato di significato caratterizzante, in quanto ricondotto o all’accordo tra le parti o all’autonomia integrale del collaboratore, è difficile dubitare che la sorte delle collaborazioni coordinate e continuative sia la loro estinzione, venendo esse fagocitate dal rapporto di lavoro subordinato (come preannunciato: C. PISANI, Le collaborazioni coordinate e continuative a rischio estinzione, in Riv. dir. lav., 2018, n. 1, 43). Un simile effetto sistematico sembra trovare conferma nella recente sentenza della Corte costituzionale (n. 113/2022) che, nel dichiarare incostituzionale una legge regionale del Lazio, che imponeva alle case di cura accreditate dal servizio sanitario nazionale di utilizzare solo medici subordinati, ha argomentato sostenendo che, oltre il rapporto di lavoro subordinato, sono legittimamente ipotizzabili rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo III del libro V richiamati dall’art.1, della legge n. 81/2017, oppure rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente ai sensi dell’art. 2, d. lgs. n. 81/2015; sembrerebbe dunque escludersi la configurabilità di una terza tipologia, che era quella poi originaria del lavoro parasubordinato, cioè le collaborazioni coordinate e continuative a cui non si applica la disciplina del lavoro subordinato.
Eppure, come in precedenza riconosciuto da vari Autori (R. De Luca Tamajo, G. Proia; F. Santoni), tali rapporti, al netto del loro uso a volte distorto, non sono una finctio juris, ma trovano una ragion d’essere nella integrazione stabile e duratura nell’organizzazione produttiva altrui del lavoratore autonomo, e la tipologia negoziale della parasubordinazione costituiva la giuridificazione di questo collegamento tra l’attività del collaboratore e il committente.
A rendere ancor più confuso il quadro sistematico, contribuiscono le deroghe od eccezioni previste dal comma 2 rispetto all’effetto stabilito dal comma 1 dell’art. 2, cit.; si tratta di tipologie di collaborazioni che anche ove dovessero presentare i requisiti previsti della etero-organizzazione da parte del committente non beneficerebbero dell’applicazione del rapporto di lavoro subordinato.
A prescindere dalla questione più generale della disponibilità o no del tipo da parte della legge, anche questa disposizione derogatoria pone dei problemi di interpretazione sistematica, che risultano particolarmente evidenti al cospetto della ipotesi prevista la lett. b) del comma 2, riguardante le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione ad albi, e cioè le cosiddette professioni ordinistiche, le quali sovente costituiscono l’oggetto di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, specie in alcuni settori, come ad esempio quello della sanità privata, ove i medici svolgono appunto la loro attività in modo continuativo nelle case di cura. Al riguardo, il combinato disposto dell’art. 409 n. 3, cod. proc. civ, nuova versione, con la nozione legale di coordinamento, e del suddetto comma 2 dell’art 2 d. lgs. n. 23/15, unitamente all’interpretazione giurisprudenziale della subordinazione attenuata, può portare a risultati applicativi paradossali. Si consideri infatti che al medico che dimostri la sottoposizione al potere del committente in ordine alle modalità di esecuzione della sua prestazione, non sarà comunque applicabile la disciplina del rapporto di lavoro subordinato; ma lui potrà comunque conquistarsi l’applicazione di tale disciplina in modo più semplice dimostrando addirittura di meno rispetto alla suddetta eterorganizzazione facendo valere la violazione della nozione legale di coordinamento, perché gli sarà sufficiente dare la prova di qualche ingerenza del committente al di là di quanto espressamente pattuito; oppure, come seconda scelta, potrà far valere la giurisprudenza sulla subordinazione attenuata, senza sobbarcarsi l’onere della prova di essere stato sottoposto comunque a un potere da parte del committente in ordine all’esecuzione della prestazione lavorativa.
Infine, come se non bastasse, nel modificare l’articolo 2, cit., per renderlo meno restrittivo, la legge n. 129 del 2019 ha introdotto un altro elemento che crea anch’esso una asimmetria sistematica, laddove ha sostituito la previsione delle “prestazioni di lavoro esclusivamente personali” con quella delle prestazioni di lavoro “prevalentemente proprio”. Questa modifica finisce per far coincidere, sotto questo aspetto, la fattispecie prevista dal legislatore del 2015 con quella dell’articolo 409 n. 3, cod. proc. civ., che appunto prevede il lavoro non esclusivamente personale; ma ciò crea una rilevante disarmonia sistematica con l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato che presuppone che il lavoratore presti il “proprio” lavoro, intellettuale e manuale, come recita l’ art. 2094 cod. civ., e non quello, sia pure non prevalente, di soggetti terzi. Come è noto, infatti, l’infungibilità dell’obbligazione di lavorare in modo subordinato, non attiene alla natura della prestazione, di per sé fungibile, ma dalla natura del vincolo, in virtù del quale non è possibile l’adempimento del terzo: conclusione fondata soprattutto sulla rilevanza tipologica assunta, nell’attuazione dell’obbligazione, dalla personalità dell’adempimento (Cfr. R. SCOGNAMIGLIO, “Lavoro subordinato (diritto del lavoro)”, Enc. Giur. Treccani, XVIII, Roma, 1990, 12; E. GHERA, “Collocamento e autonomia privata”, Napoli, 1970, 241; F. MANCINI, “La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro”, Milano, 195).
In conclusione, l’art. 2, cit. non sembra una norma che rende più agevole la conquista della disciplina del rapporto di lavoro subordinato rispetto alla giurisprudenza sulla subordinazione attenuata, rivelandosi quindi da questo punto di vista abbastanza inutile, come confermato dal contenzioso e dalla scarsità di sentenze su tale disposizione.
La norma che invece, probabilmente al di là delle intenzioni del legislatore, sembra rispondere a tale finalità di facilitare l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato è quella che ha introdotto la nozione legale di coordinamento, di cui all’articolo 15, l. n. 81/2017, che ha novellato l’art. 409, n. 3 cod. proc. civ., che, a questo punto, potrebbe soppiantare l’articolo 2094 cod. civ. Avremo così una norma processuale chiamata a svolgere la funzione di determinare la nuova linea di confine tra lavoro subordinato e autonomo; il che conferma il disordine sistematico senza consapevolezza degli effetti, frutto appunto di una stratificazione di norme non coordinate tra loro.