IL LAVORO: STRUMENTO O FINE?
Carlo Pisani
Professore ordinario – Università di Roma “Tor Vergata”
in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 1 marzo 2013
Il nostro attuale diritto del lavoro è molto attento alla persona del lavoratore subordinato.
Come scrisse Francesco Santoro Passarelli, “il lavoro dell’uomo libero per altro uomo pone nei termini più crudi all’economia e al diritto il problema della libertà e della personalità umana del lavoratore con l’avvento delle grandi imprese. Questo è l’atto di nascita del diritto del lavoro”[1].
È noto infatti che il fine del diritto del lavoro non è solo di garantire al lavoratore un trattamento economico giusto, ma anche di proteggerlo contro i percoli che possono derivare dall’inserimento in una organizzazione altrui in posizione di dipendenza, in un’impresa in cui, ai sensi dell’art. 2086 c.c., l’imprenditore “è il capo” e da lui “dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”; che ha il potere di impartire disposizioni, oltre che per l’esecuzione, anche per la “disciplina” del lavoro; che ha, tra gli altri poteri, anche quello, unico in un rapporto contrattuale tra privati, di “punire” il dipendente in caso di inosservanza alle sue direttive, essendo titolare del potere disciplinare che si esercita anche con sanzioni così dette conservative, cioè con richiami verbali, scritti, multe, sospensioni dal lavoro e della retribuzione.
In generale, nell’evoluzione del diritto del lavoro il fine di protezione della persona del lavoratore contro i pericoli dell’inserimento in una organizzazione gerarchica aliena, è stato perseguito mediante varie forme di limitazione dell’esercizio dei poteri organizzativo, direttivo, di controllo, disciplinare, di licenziamento, del datore di lavoro.