LE CONSEGUENZE DEI VIZI PROCEDIMENTALI DEL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE DOPO LA L. N. 92/12
Carlo Pisani
Prof. ordinario dell’Università di Roma “Tor Vergata”
in ADL – Argomenti di diritto del lavoro n. 2/2013
Sommario: 1. I problemi derivanti dalla qualificazione in termini di inefficacia del licenziamento viziato procedimentalmente. – 2. Ingiustificatezza del licenziamento disciplinare intimato in violazione del principio di tempestività. – 3. Violazioni del procedimento stragiudiziale per il licenziamento disciplinare e infondatezza dei dubbi di costituzionalità del comma 6 dell’art. 18. – 4. Assenza o manifesta genericità della motivazione del licenziamento e diritto di difesa giudiziale del lavoratore
1. – Il legislatore, quando si avventura in qualificazioni dommatiche, invece di limitarsi a porre precetti e sanzioni, non di rado crea problemi interpretativi in quanto costringe l’interprete a trarre da tali qualificazioni le dovute conseguenze sistematiche, che a loro volta possono comportare irrazionali o incongrue ricadute applicative, alle quali probabilmente chi ha scritto la norma neppure aveva pensato.
Un esempio recente è rappresentato dalla qualificazione in termini di “inefficacia” del licenziamento intimato in violazione della procedura prevista dall’art. 7 Stat. Lav., prevista dal nuovo art. 18 Stat. Lav., comma 6, come novellato dall’art. 1, comma 42, lett. b), legge n. 92/2012.
La suddetta qualificazione, non solo non si appalesava affatto necessaria, ma, inoltre, crea alcuni problemi interpretativi di cui non se ne sentiva la mancanza, vista l’abbondanza in tal senso offerta dalla nuova disciplina.
Che tale qualificazione non fosse necessaria è reso evidente dalla previsione dello stesso comma 6 di una specifica sanzione indennitaria per il vizio procedurale, che rende inutile la qualificazione in termini di inefficacia del licenziamento.
Oltre a non essere necessaria, tale qualificazione crea, sul piano dommatico, una frattura rispetto ai modelli sanzionatori di diritto comune[1] in quanto, con il richiamo del comma 6 al comma 5, viene espressamente previsto che alla suddetta inefficacia consegue la risoluzione del rapporto di lavoro invece della prosecuzione del rapporto di lavoro e delle consuete conseguenze derivanti dalla disciplina della mora accipiendi.
Ma il vero problema non è questa frattura dommatica rispetto ai modelli sanzionatori ordinari dell’inefficacia. Infatti, come si sa, non è ormai una novità che i principi della nullità e dell’inefficacia previsti dal codice civile siano talvolta derogati da leggi speciali, senza possibilità di delineare una categoria unitaria[2]. Tant’è vero che nello stesso articolo 18, al comma 1, dall’inefficacia del licenziamento orale vengono fatte discendere dalla norma conseguenze ancora diverse, consistenti nella tutela reale, con regime però a sua volta “speciale” rispetto a quello di diritto comune, ma comunque sempre con eliminazione degli effetti del licenziamento e conseguente persistenza del rapporto[3].
L’interrogativo più rilevante, che presenta ricadute applicative, riguarda invece le possibili conseguenze di tale qualificazione sulla consolidata tesi giurisprudenziale della c.d. sanzione di area per i vizi procedimentali del licenziamento disciplinare, e quindi sulla sanzione applicabile per tali vizi nell’area della tutela obbligatoria.
Al riguardo occorre ricordare che, prima della riforma della l. 92, i problemi applicativi si erano posti esclusivamente nell’area della tutela obbligatoria; qui la tesi della generale nullità o inefficacia del licenziamento per vizio procedimentale[4], forse più corretta, si rivelava però assai onerosa per le piccole imprese e determinava un’ingiusta disparità con la sanzione del licenziamento proceduralmente corretto ma ingiustificato. Nell’area della tutela reale, invece, se è pur vero che già la formulazione precedente dell’art. 18 Stat. lav. faceva qualche confusione terminologica, tuttavia non si ponevano problemi applicativi in quanto la conseguenza era sempre la medesima, qualsiasi fosse il tipo di illegittimità del licenziamento, secondo l’iniqua uniformità sanzionatoria del vecchio art. 18 Stat. lav. (v. par. 3). Nell’area della tutela obbligatoria, come è noto, i problemi sono stati poi risolti grazie alla sistemazione della materia operata dalle Sezioni Unite del 1994[5], avallata e anzi considerata addirittura come “diritto vivente” dalla Corte Costituzionale[6], che aveva accolto la ricostruzione secondo cui tali vizi, non consentendo al datore di lavoro di far valere il motivo disciplinare posto a base del licenziamento, si traducevano in una ingiustificatezza del licenziamento, con conseguente sottoposizione, anche in questo caso, alla regola prevista per l’ingiustificatezza sostanziale in ciascuna area (tutela reale, tutela obbligatoria, recesso ad nutum).
Ora questa soluzione rischia di non essere più praticabile[7] in quanto il legislatore ha completamente trascurato di disciplinare le conseguenze anche nell’area della tutela obbligatoria di quella sua inutile qualificazione in termini di inefficacia del licenziamento disciplinare, a differenza di quanto invece ha stabilito, come si è visto, in relazione al campo di applicazione dell’art. 18 Stat. Lav., con la sanzione dell’indennità da 6 a 12 mensilità. Infatti, non potendo essere configurabili differenti qualificazioni per un medesimo vizio del licenziamento a seconda del numero di dipendenti del datore di lavoro, la conseguenza dovrebbe essere che ai licenziamenti disciplinari, viziati nella procedura ed intimati dai piccoli datori di lavoro, dovrebbe applicarsi, in mancanza di una espressa previsione di una sanzione speciale, il regime della c.d. tutela reale di diritto comune, con il diritto del lavoratore a tutte le retribuzioni fino al ripristino del rapporto, in conseguenza all’inefficacia del licenziamento e quindi della sua inidoneità a produrre l’effetto estintivo del rapporto medesimo.
Si tratta evidentemente di una conseguenza irragionevole perché si avrebbe una tutela praticamente reale per le sole aziende minori per il medesimo tipo di vizio per il quale, per le aziende maggiori rientranti nel campo di applicazione dell’art. 18 Stat. Lav., si applica ormai solo la tutela indennitaria da 6 a 12 mensilità di retribuzione.
Anche nella stessa area della tutela obbligatoria si produrrebbe l’ulteriore ingiustificata differenza di trattamento tra il lavoratore licenziato ingiustamente, che ottiene soltanto l’indennità prevista dall’art. 8 l. 604/66, e il lavoratore che, pur essendo pienamente colpevole, lucra una tutela di gran lunga più favorevole in virtù di un vizio procedimentale; ragione, questa, che infatti indusse le Sezioni Unite del 1994 a escogitare la tesi, che abbiamo visto, della c.d. sanzione d’area per tale vizio.
Per evitare queste irragionevoli conseguenze non sembra si possa sostenere che anche nell’area della tutela obbligatoria l’effetto estintivo del rapporto si produrrebbe egualmente in virtù del richiamo operato dal comma 6 al comma 5 (“… si applica il regime di cui al comma 5”), in cui si afferma che il giudice comunque “dichiara risolto il rapporto”. Infatti l’applicazione del comma 5, riguarda solo i licenziamenti intimati nell’area dell’art. 18 , mentre la previsione di inefficacia del licenziamento viziato proceduralmente, in quanto qualificazione e non effetto, non è suscettibile di mutare in ragione delle diverse dimensioni del datore di lavoro. E’ pur vero, come si è visto, che non bisogna sorprendersi di fronte a deroghe al principio del codice civile sugli effetti della inefficacia come quella prevista dal comma 6; non sembra però corretto, una volta qualificato come inefficace il vizio procedurale, applicare la suddetta deroga al di fuori dei casi espressamente stabiliti dalla norma speciale -quì i licenziamenti intimati dai datori di lavoro con più di 15 o 60 dipendenti di cui al comma 8-, in assenza di analoga norma speciale derogatrice introdotta anche per i piccoli datori di lavoro.
Pertanto, in mancanza di una doverosa correzione legislativa, occorrerà un intervento della Corte Costituzionale, che, in base agli artt. 3 e 41 Cost., sancisca l’effetto estintivo del rapporto di lavoro per i licenziamenti viziati proceduralmente anche nell’area della tutela obbligatoria, per sottrarli alla tutela reale di diritto comune.
[1] C. Cester, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti individuali: prime riflessioni, in Arg. Dir. Lav., pag, 564
[2] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2007, p. 996 ; sulle c.d. nullità specialità A.G., Diana, La nullità parziale del contratto, Milano, 2004; A. Albanese , Violazione di norma imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003; G. Passagoli, Le nullità speciali, Milano, 1995.
[3] Sottolinea opportunamente il doppio uso del termine “inefficace” F. Carinci, Il licenziamento inefficace, in Commentario alla Riforma Fornero. Supplemento a Diritto e mercato del lavoro, in Lav. Giur., 2012, 6, 10, p. 72.
[4] Cass. 7 settembre 1993, n. 9390, Dir. Prat. Lav., 1993, 3041; Cass. 5 febbraio 1993 n. 1433, Foro it., I, 373; Cass. 3 giugno 1992, n. 6741, ivi, 374; Cass. 4 marzo 1992, n. 2592, Giust. Civ., 1992, I, 2403; Cass. 22 gennaio 1991, n. 542, Foro it., 1992, I, 1142.
[5] Cass. S.U., 26 aprile 1994, nn. 3965 e 3966, in Foro it., 1994, I, 1708.
[6] Corte Cost. 25 luglio 1989, n. 427, Foro it., 1989, I, 2685.
[7] F. Carinci, Il nodo gordiano del licenziamento disciplinare, in corso di pubblicazione in Arg. Dir. Lav., n. 6/2012. Per questa conclusione, in relazione alla mancanza della specificazione dei motivi del licenziamento nell’area della tutela obbligatoria, P. Tosi, L’improbabile equilibrio tra rigidità “in entrata” e flessibilità “in uscita” nella legge n. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, in Arg. Dir. Lav., 2012, pag. 832; A. Vallebona, La riforma del lavoro 2012, Torino, 2012, pag. 44