- Di: Carlo Pisani
in Lavoro, Diritti, Europa, n. 1/2023
Pubblicato: 21 Febbraio 2023
Categoria: Dottrina
TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Premessa: le differenti angolazioni da cui analizzare il tema delle tutele.
Il tema della tutela dei diritti del lavoratore si pone come la ratio essendi della nostra materia. Tutta l’evoluzione del diritto del lavoro come diritto speciale è stata storicamente caratterizzata dallo scopo della protezione del lavoratore, identificato come contraente debole e nello stesso tempo come persona implicata nell’attività di prestazione . Il tema delle tutele è dunque molto vasto identificandosi con lo statuto protettivo del diritto del lavoro, per cui una relazione in argomento deve realisticamente orientarsi sulla finalità di inventariare spunti di riflessione per macro-temi.
Le “tutele”, infatti, possono essere esaminate da diverse angolazioni.
Vi è quella dei loro mutamenti, degli eventuali abbassamenti o incrementi, delle linee di tendenza di decrescita o sinusali, del loro andirivieni e delle oscillazioni. Giugni utilizzò il termine “stratificazione alluvionale” per descrivere un fenomeno di sovrapposizione non coordinato di tutele che ha poi continuato a persistere; ciò implica passare in rassegna le varie stagioni del diritto del lavoro, che le tutele stesse hanno caratterizzato, poiché probabilmente sono state le loro modifiche a determinare le varie fasi che ha attraversato la nostra materia, e non viceversa.
Vi è inoltre il punto di vista costituito dalla tipologia trasversale delle tecniche di tutela; questo angolo visuale consente anche di valutare se rimangono attuali le sistemazioni in ordine alle sanzioni operate negli anni settanta e ottanta del secolo scorso quando il diritto del lavoro, e non solo, “scoprì” l’argomento , sulla scorta della valorizzazione del principio dell’effettività delle tutele e del diritto ad un rimedio effettivo; oppure possono essere analizzate per ciascun istituto, soprattutto in relazione a quelli più emblematici, primo fra tutti il licenziamento
Vi è, ancora, l’angolazione delle fonti delle tutele, sovranazionali, nazionali, collettive, di diritto pubblico o privatistiche. Vi è quella che concerne l’ambito delle tutele, se rivolte agli outsiders, e quindi riguardante il mercato del lavoro, gli ammortizzatori, i sussidi, gli incentivi all’occupazione, o se invece agli occupati, relative perciò allo svolgimento del rapporto e alla sua estinzione, pur con le inevitabili connessioni.
In definitiva, si tratta di buona parte del diritto del lavoro. Non potendo trattare di tutto, si impongono purtroppo selezioni tematiche e dolorose esclusioni.
La scelta è di dedicare l’attenzione prevalentemente alle tutele di fonte legale di natura privatistica poste a favore del lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro, in quanto le più praticate nelle aule di giustizia, laddove pulsa la “carne viva” dell’effettività delle tutele stesse. É sempre lì che, come diceva Massimo D’Antona, emergono alla fine le differenze tra i “ponti superbi che conducono nel deserto”, i “ponti che crollano perché il progettista è un buon politico ma un cattivo ingegnere” e i “ponti di discutibile fattura su cui tutti però finiscono per passare perché fanno risparmiare strada”. Si tratta della presa d’atto realistica che nel diritto del lavoro, per svariate ragioni, tra cui quella delle norme inderogabili spesso a precetto generico, e per la natura della tutela dei diritti da tutelare, il predicato “giurisdizionale” si accompagna ancora imprescindibilmente all’espressione “tutela”. Ad esempio, vedremo come sia sufficiente che il giudice non ammetta una prova, pur tempestivamente richiesta, affinché una determinata forma di tutela muti nei fatti natura e funzione e si trasformi da risarcitoria in sanzionatoria.
Sono sempre i rimedi concretamente predisposti ed esperibili contro la lesione di un diritto a segnare il limite della sua rilevanza, secondo quell’indissolubile intreccio tra norme sostanziali e norme processuali da cui risulta la complessiva ed unitaria risposta dell’ordinamento all’esigenza di tutela di un determinato interesse.
Davanti all’aula magna della vecchia sede della facoltà di Giurisprudenza della mia Università di Tor Vergata a Roma era riportata questa frase di Caterina II di Russia rivolta a Diderot, che meglio di altro, sintetizza il perenne problema dell’effettività delle tutele: “Signor Diderot ho ascoltato col più grande piacere tutto ciò che il vostro brillante genio vi ha ispirato; ma con tutti i vostri grandi princìpi che io intendo assai bene, si possono fare bei libri, funzionerebbero assai male nella pratica reale. Voi dimenticate, in tutti i vostri progetti di riforma, la differenza esistente tra le nostre due posizioni: voi lavorate soltanto sulla carta, la quale si sottomette a tutto, è del tutto obbediente e docile e non frappone alcun ostacolo, né alla vostra immaginazione né alla vostra penna; mentre io, povera imperatrice, lavoro sulla natura umana, la quale è irritabile e si offende facilmente” .
Pertanto, la relazione si articola in due parti. La prima ripercorre per grandi linee ed in modo sistematico le principali fasi – vissute oltre che studiate – delle tutele e delle loro tecniche, secondo il compito del buon giurista, il quale “è un cercatore d’ordine, un tessitore d’ordine, perché il diritto è essenzialmente scienza ordinante; egli si sforza di individuare e segnare la ragnatela dell’ordine che soggiace, invisibile ma reale, al di sotto della incomposta rissa delle cose” .
Ciò vale soprattutto per il diritto del lavoro, in quanto non è possibile scrutare il suo futuro, tanto più in una stagione di grande confusione e contraddittorietà valoriale e tecnica, senza volgere lo sguardo alla evoluzione normativa che ha caratterizzato la materia e il suo moto pendolare .
L’intento è anche quello di verificare se si è avverata la “profezia” di Giugni del 1982 , secondo cui il precedente sistema di tutele, caratterizzate dal loro continuo incremento, era pensato per un’economia in rapida crescita e quindi destinato a non mantenere lo stesso tasso incrementale, ma anzi a subire inevitabili regressioni, che oggi potremmo definire adeguamenti sul piano normativo.
I giudizi, positivi o negativi su questo andamento delle tutele, che certo statiche non potevano rimanere, costituiscono ovviamente un posterius valutativo di politica del diritto, rispetto al prius rappresentato dal dato sistematico. Poi, a partire da questa ricerca, si possono avanzare considerazioni più generali, come quelle, ad esempio, che ritengono che si sia assistito ad un pericoloso indebolimento dello statuto protettivo del lavoratore o, al contrario, che reputano ineluttabile il suddetto adeguamento in ragione del livello e delle caratteristiche che avevano raggiunto tali tutele, considerata anche la loro applicazione giurisprudenziale e le connessioni del diritto del lavoro con gli scenari macroeconomici che condizionano inevitabilmente le scelte normative, tanto che, opporsi ad essi potrebbe far venire in mente l’apologo del re Canuto, il sovrano inglese che aveva la pretesa di opporsi alle maree e finì annegato.
La seconda parte della relazione è dedicata al quadro sincronico di come si presentano oggi le principali forme e tecniche di tutela, con particolare riferimento alle questioni più problematiche, laddove sono emerse le tensioni e le contraddizioni rilevate su di un piano teorico nella prima parte, e che contraddistinguono quel fenomeno, definito “l’età della giurisdizione”, da alcuni esaltato come espressione di coerenza del diritto con i principi, da altri invece criticato per l’eccesso di soggettivismo giudiziario cui approda, oppure per il carattere intrinsecamente limitato della concezione rimediale del principio di effettività .
Ancor prima è però necessario illustrare le ragioni dell’espressione “l’età della giurisdizione”, utilizzata nel titolo, in quanto i suoi significati sono strettamente connessi con le nuove declinazioni del principio di effettività delle tutele e dei rimedi.
2. Principio di effettività, piano mobile dei rimedi, età della giurisdizione.
La nozione di tutela nel diritto privato si è arricchita da tempo di significati ulteriori rispetto a quelli tradizionali, sotto la spinta della progressiva valorizzazione che si è avuta del principio di effettività e del diritto ad un rimedio effettivo.
È dunque inevitabile che anche nel rapporto di lavoro il tema delle tutele e delle sue tecniche vada preliminarmente inquadrato in questo scenario più ampio, che ha trovato ricadute importanti sul piano giurisprudenziale nella nostra materia, e dalla quale ha ricevuto stimoli non secondari; si pensi, ad esempio, a proposito dei danni punitivi, ai richiami operati dalle Sezioni Unite del 2017 alle fattispecie di provenienza lavoristica, ritenute dalla sentenza caratterizzate da finalità afflittive e deterrenti. Del resto, come sosteneva Mengoni, questo “apporto” del diritto del lavoro all’evoluzione delle categorie civilistiche non è nuovo, al pari dell’ineliminabile supporto che il diritto civile fornisce al diritto del lavoro.
Punto di partenza è la fondamentale distinzione tra interessi o bisogni che si ritiene meritevoli di tutela, ma che ancora non sono stati riconosciuti dall’ordinamento, e quindi non sono stati giuridificati, e quelli invece che hanno ricevuto quella forma di protezione che ha il nome di diritto soggettivo . Secondo la teoria classica, o tradizionale dei rimedi, sono appunto i diritti soggettivi lo strumento di tutela originaria.
Questi diritti, per difforme agire pratico dei consociati, sono suscettibili di essere violati. Per siffatta eventualità il sistema offre dunque strumenti suppletivi di tutela, ossia dispositivi tecnici di realizzazione secondaria aventi appunto come scopo la protezione dell’interesse divenuto diritto insoddisfatto.
Dal momento in cui l’ordinamento riconosce un diritto soggettivo perfetto si apre allora un ventaglio di soluzioni protettive fortemente differenziate tra loro, sicché la scelta del legislatore per l’una o per l’altra segna in modo decisivo il limite di concreta soddisfazione dell’interesse considerato.
Per definire siffatti strumenti è prevalso il temine “rimedi” remedies. Interessante l’etimologia: il termine deriva dal latino remedium, che ha la sua radice in mederi, che significa meditare, riflettere e quindi remedium, ossia curare dopo aver riflettuto.
La svolta a tal proposito si è avuta quando, a partire dagli anni ’70-’80 del secolo scorso, sono cominciate ad emergere le tendenze dirette ad ampliare il riferimento della nozione di tutela anche ad ordini di interessi o bisogni che non hanno ricevuto la veste di diritti , in nome della piena attuazione del principio di effettività delle tutele e del diritto a un rimedio effettivo. Il passaggio decisivo si è avuto nel momento in cui il principio di effettività è stato declinato come un vero e proprio “principio che si fa diritto” ad un “rimedio effettivo”, inteso come correlazione con un diritto, ma anche solo con un bisogno, e la possibilità di una sua piena tutela nel processo attraverso una adeguata gamma di mezzi di attuazione o di realizzazione giurisdizionale .
Su questa scia, valorizzando il principio di effettività, si è dunque fatto strada l’orientamento dottrinale in base al quale il rimedio può anche precedere il diritto o addirittura prescinderci, in quanto reazione in tutti i casi in cui si sia in presenza di un bisogno di tutela rimasto insoddisfatto; bisogno che alluderebbe ad una istanza valoriale sovraordinata e metapositiva. All’attuazione di questi interessi sopperirebbe allora il rimedio, che assumerebbe così forza normativa, non come strumento di realizzazione primario dell’interesse risultato insoddisfatto, ma, ancora prima, come fonte diretta della stessa giuridificazione di siffatto interesse, previo riscontro soltanto della sua ritenuta meritevolezza, secondo l’ordinamento giuridico . Si diffonde dunque l’idea di una sorta di “atipicità” degli strumenti di attuazione, sicché il giudice si sente autorizzato a ricercare o a scegliere, “nelle pieghe dell’ordinamento”, la risposta più adeguata, e cioè il rimedio effettivo, per i bisogni individuali di tutela .
A questa corrente di pensiero si è opposto criticamente il timore di un uso ormai dilagante del termine “rimedio” , che tende a diventare ipertrofico, acritico e forse ideologico . Si è fatto riferimento al riguardo agli eccessi della c.d. ermeneutica dell’effettività . Ad essa, infatti, occorre un demiurgo che non è più il legislatore ma essenzialmente il giudice, sicché questa tecnica “vive del guizzo del magistrato decisore” , il quale, come un novello Diogene, va alla ricerca del rimedio più effettivo che c’è. In sostanza, la ipervalorizzazione o enfatizzazione del principio di effettività come “diritto a un rimedio effettivo”, suscita il timore di una concezione del diritto volta a esaltare la creatività giurisprudenziale come fonte primaria del diritto.
Tutto ciò va inquadrato in una tendenza ancora più generale definita, con efficace espressione riassuntiva, come l’“età della giurisdizione” , per indicare il primato esponenziale che si è riconosciuto alla giurisprudenza , che avrebbe assunto una funzione sempre più centrale, a tutti i livelli, in ragione di una magistratura, non solo pienamente consapevole del proprio ruolo creativo nell’applicazione del diritto, ma anche convinta di dover assumere un ruolo di protagonista nell’ambito politico; da ultimo è significativo lo sciopero indetto dell’associazione nazionale dei magistrati contro la riforma del CSM nei confronti dei nuovi criteri di valutazione, nel timore di una “mortificazione della vitalità dell’interpretazione della norma”. È altresì significativo che nella relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2015, il primo Presidente della Corte Suprema della Cassazione esprimeva il timore di una “deriva della giurisdizione verso l’instabilità del diritto liquido” .
Si tratta in sostanza dell’epocale passaggio dal “monismo legalistico al pluralismo giuridico” , che affonda le radici nello spostamento dell’asse portante dell’ordine giuridico dal primato della legge al primato dei principi, quali fonti del nuovo diritto privato .
Vi è dunque la necessità di un interprete creativo, che può essere la Corte costituzionale, ma anche il giudice ordinario, a cui spetta il “compito salvifico” di produrre il diritto: a lui è dato fare ciò che la legge non è più in grado, ossia “leggere e decifrare valori diffusamente condivisi” meglio dei governanti, sullo sfondo della crisi che investe un legislatore “troppo spesso modestissimo” , nonché la formazione della classe dirigente nelle democrazie occidentali e in Italia in particolare. È quindi il segno fondamentale dell’antipolitica che si presenta con il volto rassicurante dei giudici .
Naturalmente una simile impostazione ha suscitato obiezioni prevalentemente basate sul timore che, in tal modo, vi può essere il rischio di rendere la funzione giurisdizionale strumento di attuazione delle idee e convinzioni personali che ogni singolo giudice può essere indotto a trasferire nelle decisioni e, quindi, in definitiva, strumento di potere per chi amministra il riconoscimento di ciò che è ragionevole e di ciò che non lo è. A ciò si aggiunge la critica che pone l’accento sulla difficoltà di costruire la razionalità del sistema su questo terreno ritenuto “erratico e franoso” .
Tra le tecniche maggiormente praticate per attuare principi e valori vi è quella dell’uso, o abuso, a seconda dei punti di vista, dell’interpretazione costituzionalmente orientata. Infatti, anche il giudice, e non solo la Corte costituzionale, si sente facoltizzato a proporre bilanciamenti problematici quando i principi fondamentali vengono in conflitto, risolvendo il caso in maniera conforme al principio così bilanciato, ancorché possa essere dissonante rispetto alla lettera della norma legislativa , onde poter in tal modo dispiegare compiutamente la sua personale Drittwirkung, imponendo così l’affermazione immediata e automatica di suoi “assoluti e grandeggianti valori” . Di qui la preoccupazione che alcuni eccessi nell’uso dell’interpretazione conforme a Costituzione siano dovuti o possono condurre a un soggettivismo giudiziario avulso dalla mediazione praticata dal legislatore .
Il fenomeno del soggettivismo e creazionismo giudiziario è da sempre un tema delicato e insidioso nella nostra materia, per la sua valenza anche divisiva, poiché, da una parte della dottrina esso è ritenuto salvifico per il suo ruolo primario nella gerarchia assiologica del sistema giuslavoristico , soprattutto da chi ha visto nelle riforme dei primi quindici anni del secolo l’appannamento, se non la vera e propria crisi, dei diritti fondamentali del lavoratore; da altra parte, invece, viene da sempre guardato con forti perplessità per la tendenza ad essere declinato in chiave politico-ideologica .
Già negli anni ‘80, ammoniva Gino Giugni che questa accentuata discrezionalità giudiziaria fosse un elemento “patologico ed anomalo”, augurandosi un suo superamento .
Il problema, che ovviamente esiste, dei diritti senza adeguata azione non può essere risolto con le azioni senza diritto. Concepire la tutela giurisdizionale come prius rispetto alla regola sostanziale, poi rintracciabile in qualche modo tra le pieghe del sistema, presuppone che diventi indifferente se affidare alla sovranità popolare, per mezzo del Parlamento, o al giudice, la scelta dell’interesse prevalente. Mentre, se un interesse non è protetto oppure è poco protetto dalla legge, l’interprete non può far prevalere la sua soggettiva disapprovazione nei confronti di questa, da lui ritenuta ingiusta, sottovalutazione da parte del legislatore, e quindi, accingersi a “fare da sé”, per affermare una regola nuova.
Il rischio di quella che è stata definita una sorta di deriva pangiurisdizionalista è che essa renda l’ordinamento giuridico non in grado di garantire, in misura sufficiente, certezza del diritto, prevedibilità degli esiti dei processi e applicazione uniforme delle regole tra i consociati, e che quindi diventi, non solo inefficiente sul piano economico, ma anche non più “giusto” , in quanto gli approdi interpretativi contraddittori possono determinare situazioni ingiustamente diseguali a parità di condizioni. Questo aspetto risulta evidente nei casi in cui proprio la discrezionalità del giudice, invocata per assicurare il rispetto del principio di uguaglianza, può portare invece a violazioni di quel principio, tutte le volte in cui una medesima norma viene applicata in modo differente ad un medesimo caso in ragione, appunto, dell’accentuato soggettivismo della decisione.
Così potrà accadere, ad esempio, dopo la sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale , la quale ha volutamente dato la stura ad un soggettivismo giudiziario eccessivamente incentrato sul caso concreto, fino a comprendere condizioni per la determinazione dell’indennità che talvolta sono ignote alle parti stesse del processo , come è accaduto in quel caso in cui il Tribunale ha determinato l’indennità considerando anche le spese di trasloco che aveva sostenuto il lavoratore .
Non si tratta di essere affetti dalla nostalgia per la certezza del diritto quale valore etico e trascendente la continuità dell’ordinamento positivo, bensì – come concludeva Ghera nel suo ancora attuale saggio del 1979 sulle sanzioni civili nella tutela del lavoratore – di ravvisare nella certezza un canone di interpretazione idoneo a garantire la uguaglianza dei cittadini che si rivolgono alla giustizia . In conclusione, anche in un mondo investito da un ritmo di cambiamenti sempre più veloci , ci si è chiesti quale sia la soglia tollerabile dell’incertezza del diritto, “quale sia cioè il confine che non deve essere valicato per non trasformare un ordinamento in una montagna di carta inutile e un processo in una lotteria forense” .
3. L’inizio della nuova “era geologica” del diritto del lavoro: il lento superamento del “modello unico anni Settanta”.
Per capire meglio quello che, in tema di tecniche di tutela, sta accadendo ora e ciò che è successo nel passato prossimo, occorre risalire alla genesi, al passato remoto.
La nostra genesi può essere individuata nella famosa relazione al convegno AIDLASS di Bari del 1982 di Gino Giugni, in cui richiamava un punto di partenza ancor più remoto, in quanto così esordiva : “Nell’ormai lungo periodo che ci separa dalla soppressione dell’ordinamento corporativo…”. Erano trascorsi circa quarant’anni.
Si potrebbe anche ora iniziare dicendo, “nell’ormai lungo periodo che ci separa”, questa volta però dal momento in cui il diritto del lavoro ha conosciuto il suo culmine protettivo in termini di tutele del lavoratore, il suo apogeo, raggiunto con lo Statuto dei lavoratori e il processo del lavoro del 1973; da allora è trascorso un periodo ancora più lungo, quasi cinquanta anni.
Sempre Giugni poteva affermare che il diritto del lavoro allora era riuscito a realizzare risultati di grande rilievo “in estensione e in profondità”, in tema non solo di diritti sindacali, ma anche di “tutela dei diritti dei lavoratori”.
Ma già allora Giugni intuiva i prodromi di “accelerati cambiamenti” e aveva capito che quel sistema di garanzie “tra i più avanzati”, avesse “toccato il livello di guardia oltre il quale non è possibile procedere” , in quanto pensato per una economia in rapida crescita come presupposto indefettibile per tali tutele.
Questo apogeo delle tutele in realtà era caratterizzato essenzialmente, oltre che dalla tecnica della norma inderogabile, anche dalla uniformità, in “estensione e profondità”, sovente accompagnata dall’altra connotazione di essere imposta da norme fondamentali a precetto generico. Un simile mix di tecniche era funzionale, come scriveva Giugni, “per garantire il massimo della protezione al lavoratore, all’esaltazione dell’ideale giuridico del rapporto di lavoro inteso come rapporto stabile e a tempo pieno .
In quella famosa relazione di Giugni c’era anche un’altra intuizione sistematica fondamentale che riguarda ancora più da vicino il tema delle tecniche di tutela. Quel sistema, non solo non poteva crescere ancora in misura esponenziale, ma avrebbe dovuto evolversi in modo differente, perché era segnato da un vizio d’origine consistente nella formazione alluvionale della normativa che determinava “una serie di antinomie o lacune di collisioni” , che si traduceva in una irrazionale stratificazione di tutele.
Come vedremo, il processo evolutivo del diritto del lavoro non si è mai del tutto sbarazzato di quel vizio di origine denunziato da Giugni tanto da essere considerato un “vizio endemico del sistema lavoristico” .
Giugni comunque non esercitava doti divinatorie ma analizzava attentamente i fatti di cui aveva colto le prime avvisaglie. Come scrisse Mengoni: “La festa dello Statuto fu guastata dallo shock petrolifero nel 1973” . La crisi pose fine allo sviluppo economico che aveva caratterizzato l’Occidente negli anni Cinquanta e Sessanta.
Il legislatore fu indotto ad intervenire a partire dal 1977 con una serie di provvedimenti in controtendenza rispetto alla politica legislativa degli anni precedenti.
Ma, soprattutto, fu costretto a frenare il costo del lavoro; per la prima volta nella storia del secondo dopo guerra fu applicata la tecnica della norma inderogabile all’autonomia collettiva in funzione di limite massimo della dinamica salariale. Quella fu vissuta come una “svolta epocale”. In sintesi, finiva l’epoca della retribuzione come variabile indipendente e il sostanziale accantonamento dei problemi di compatibilità economica delle tutele, in termini di inflazione, disoccupazione e debito pubblico.
Era nato il diritto del lavoro dell’emergenza ; ma all’inizio degli anni Ottanta fu chiaro che si sarebbe passati dal diritto dell’emergenza a quello della crisi, a fronte dei tumultuosi mutamenti nel mondo del lavoro e negli scenari economici internazionali.
Infatti, sono stati cinquanta anni ad alta intensità per il mondo del lavoro e non solo; basti pensare che essi sono stati attraversati da ben due rivoluzioni industriali, la terza e la quarta, quando invece le prime due furono distribuite lungo almeno due secoli. Uno dei tratti distintivi di questo lungo periodo, per quel che qui interessa, si può quindi ritenere quello dell’accelerazione , tecnologica innanzitutto, che ha portato a compimento i tratti salienti della post-modernità.
È importante sottolineare che, al cospetto di un mondo del lavoro che cambiava in continuazione, il processo di adeguamento così avviato delle tecniche di tutela – secondo alcuni di regressione, secondo altri di allentamento delle uniformità più o meno inique o oppressive, si connotava però per la sua lentezza e i suoi ritardi.
Un esempio emblematico del tendenziale immobilismo che ha caratterizzato la materia per lungo tempo e della risposta fortemente conservativa dell’ordinamento e della cultura giuslavoristica , può essere visto in riferimento a due norme dello Statuto dei lavoratori tra le più esposte ai mutamenti indotti dall’innovazione tecnologica, e cioè gli artt. 4 e 13. Nel Convegno AIDLASS di Napoli del 1985, di ben trentasette anni fa, intitolato “Rivoluzione tecnologia e diritto del lavoro”, la relazione di Carinci e altri autorevoli interventi , mettevano in evidenza che già allora, tra le norme in evidente sofferenza dello Statuto, vi erano quelle che regolavano il controllo a distanza tramite apparecchiature e il mutamento delle mansioni, da cui emergeva evidentissimo, già allora, il ritardo di tali tecniche di tutela nei confronti dell’informatica che stava irrompendo nel mondo del lavoro. Ebbene dovevano passare da allora ben trent’anni prima che quelle due norme venissero riformate e ne venisse superata la rigida uniformità della disciplina di tutela.
Mentre, ad esempio, in Germania sin dal 2003, venivano inserite gradualmente dosi di flessibilità nella gestione dei rapporti di lavoro, da noi, ancora a cavallo del nuovo secolo, le istanze di flessibilizzazione trovavano sbocco solo in direzione dello sviluppo di tipologie atipiche, con la c.d. legge Biagi, il D.L.vo n. 276/2003, ma certo non per quanto atteneva ai vari profili di disciplina del rapporto di lavoro, che restavano sostanzialmente intatti .
4. Le tecniche del progressivo parziale allentamento della inderogabilità uniforme: la devoluzione all’autonomia collettiva, l’autonomia negoziale assistita e la derogabilità individuale nelle sedi protette.
Nell’arco di tempo che va dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso al 2012, uno dei principali percorsi che può essere seguito nella ricostruzione delle tecniche di tutela nel diritto del lavoro, è il ruolo giocato dal rapporto tra le fonti, innanzitutto quello tra legge e autonomia collettiva . Per il resto, al di là della riforma del rapporto del pubblico impiego, si è proceduto all’ordinaria manutenzione del sistema, modificando qua e là qualche tecnica di tutela.
Infatti, la nota dominante è probabilmente da ravvisare nella valorizzazione dell’autonomia collettiva in funzione flessibilizzante della disciplina del rapporto e della riduzione dello spazio della norma inderogabile uniforme e delle sue rigidità e automatismi , secondo quella che veniva variamente denominata la tecnica della flessibilità concordata o del garantismo flessibile, nella misura in cui si spostavano le tutele e le garanzie “dal piano rigido della legge, al piano mobile di una contrattazione collettiva dinamica” .
Si è trattato di una tendenza progettuale destinata a diventarne poi una caratteristica strutturale tanto che ora sembra un dato del tutto acquisito e fisiologico che in molte materie sia la legge stessa a prevedere che la sua disciplina possa essere completata, derogata o sostituita, da regole elaborate dalle parti sociali .
Basti ricordare, a mero titolo esemplificativo, oltre gli interventi sul contratto a termine; la L. 12 giugno 1990, n. 146, sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e la L. 23 luglio 1991, n. 223, sui licenziamenti collettivi.
È importante sottolineare telegraficamente alcune ben note caratteristiche dell’evoluzione di queste tecniche.
a I rinvii dalla legge al contratto collettivo non andavano a scalfire gli aspetti che incidevano maggiormente sul quantum di flessibilità del rapporto, come, ad es., la giusta causa o il giustificato motivo, o l’equivalenza per la mobilità orizzontale.
b La loro varietà; esse, infatti, potevano e possono essere in funzione di integrazione o di deroga rispetto alla disciplina legale, o addirittura di sostituzione a quella di default dettata dalla legge, in cui il contratto collettivo non è più chiamato a flessibilizzare la disciplina inderogabile attenuandone la rigidità, quanto piuttosto a definire esso stesso la disciplina inderogabile destinata a regolare l’istituto in luogo di quella legale .
c Mediante queste tecniche di devoluzione al contratto collettivo, però, i rapporti tra fonte legale e fonte contrattuale si allontanavano man mano dai fasti del passato nei quali vi era una rincorsa reciproca all’accrescimento dei contenuti garantistici a vantaggio della parte debole del rapporto di lavoro .
d Uno dei principali punti di arrivo della suddetta tendenza, forse più simbolico che di impatto pratico applicativo, può essere considerata l’introduzione dei c.d. accordi di prossimità, dell’art. 8, L. 14 settembre 2011, n. 148, in cui viene assegnato, neanche più al contratto collettivo nazionale, ma a quello aziendale e territoriale, il potere normativo di modificare in pejus una amplissima area di disposizioni di legge altrimenti inderogabili, purché nel limite, tautologicamente posto, del rispetto della Costituzione e delle convenzioni internazionali; ma rimane emblematica la tecnica normativa intesa a ridurre non solo l’inderogabilità della norma legale, ma anche l’uniformità dei rapporti tra i contratti collettivi di diverso livello, con alterazione del tradizionale assetto delle fonti.
La medesima tecnica di “scardinamento” della tradizionale e uniforme gerarchia tra contratti collettivi di diverso livello è proseguita ad opera dell’art. 51, D.L.vo n. 81/2015, che pone sullo stesso piano il contratto collettivo decentrato rispetto a quello nazionale nella definizione di medesime funzioni e competenze tradizionalmente riservate al secondo .
L’allentamento della norma inderogabile, si è verificato anche a livello individuale, sempre in sede assistita.
Già agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso una delle prime voci critiche e, all’epoca, in controtendenza, in ordine all’uniforme oppressiva tecnica dell’inderogabilità, fu quella di Massimo D’Antona, il quale coglieva l’esigenza, allora insoddisfatta, di lasciare uno spazio, sempre controllato e assistito, alla protezione degli interessi, dei bisogni e dei progetti di vita, del “lavoratore in carne e ossa”, per consentire, ad esempio, al tornitore di non fare il tornitore per tutta la vita .
Anche questo passaggio, dalla mera fase di diposizione dei diritti già maturati, ad una limitata fase di costruzione ex ante di una disciplina specifica adeguata al singolo rapporto, con alcune possibilità di deroga, è stato però per lungo tempo lento, per poi subire una accelerazione, ma sempre in ambiti circoscritti.
Infatti, le proposte che erano contenute nel libro bianco del 2001, in relazione al modello della volontà o della derogabilità assistita, venivano bocciate dalle resistenze sindacali. Anzi, con il D.L.vo n. 276/2003 si pensava di risolvere i ritardi in tal senso con la proliferazione dei sottotipi contrattuali, sbandierati come strumenti di flessibilità, che invece accrescevano ancora di più l’incertezza e il contenzioso giudiziario. Proprio in questa situazione di incertezza culminante, il legislatore prendeva atto della sua insostenibilità, introducendo il nuovo istituto della Certificazione , al dichiarato fine di ridurre il contenzioso in materia di lavoro art. 75, comma 1, D.L.vo n. 276/2003, come novellato dall’art. 30, comma 4, L. 4 novembre 2010, n. 183. Senonché tale l’istituto si è rivelato di limitata utilità, poiché non consente alcuna deroga alla normativa legale e collettiva, neppure con l’assistenza di un soggetto imparziale.
Successivamente, è progressivamente aumentato, soprattutto nella stagione del Jobs Act, il numero delle disposizioni che hanno aperto spazi alla vera e propria possibilità di deroga alle norme inderogabili legali e collettive a livello individuale. I tratti comuni di queste disposizioni, anch’essi ben noti, consistono nella tecnica di abilitare la volontà individuale a dettare una regola difforme da quella altrimenti imposta dalla legge, sempre però entro limiti inderogabili predeterminati o a condizioni fissate dalla legge, e purché in presenza di soggetti qualificati, il cui compito è quello di assistere la parte debole del rapporto nella comprensione del significato e degli effetti della volontà manifestata, ma anche nella c.d. “convenienza” dell’affare, analogamente a quanto accade per gli atti di disposizione di diritti già entrati nel patrimonio del lavoratore ai sensi dell’art. 2113 cod. civ.
Tra le norme invece più significative di effettiva derogabilità assistita si può ricordare l’art. 2103, comma 6, c.c., per la sua incidenza, per la prima volta, su aspetti fondamentali della disciplina del rapporto di lavoro quali mansioni, inquadramento e retribuzione. In effetti, è l’art. 2103 c.c., nel suo complesso, che contiene un autentico repertorio di tecniche in relazione al rapporto tra le fonti, a cominciare da quella del primo comma di rinvio al contratto collettivo, mediante l’utilizzazione di un istituto di quest’ultimo, vale a dire il sistema di inquadramento, per riconnettervi un effetto, e cioè uno dei due limiti al mutamento delle mansioni, l’altro rimanendo quello della categoria legale stabilito direttamente dalla legge .
Ma è nel comma 6 che è prevista la tecnica della vera e propria derogabilità assistita nelle sedi protette, per modificare in pejus mansioni, inquadramento e retribuzione, abilitando l’autonomia privata a derogare alla regola generale di cui al comma 1, ma anche alle eccezioni di cui ai commi 2 e 4. Infatti, il lavoratore può pattuire di essere adibito a mansioni inferiori, senza limiti di livelli e categorie, con la corrispondente retribuzione inferiore. Qui si rinvengono i tratti tipici di questa tecnica derogatoria, che consistono, oltre nell’ovvia sede protetta-assistita di cui all’art. 2113 c.c., anche nell’imposizione di precise limitazioni e/o condizioni inderogabili di ammissibilità, individuate dal legislatore in tre possibili causali che concernono le ragioni della convenienza del patto per il lavoratore, tassativamente predeterminate dalla norma e consistenti in altrettanti suoi “interessi”, e cioè la salvaguardia dell’occupazione, oppure l’acquisizione di una diversa professionalità, oppure il miglioramento delle condizioni di vita.
È interessante notare come, dal punto di vista delle tecniche, la riforma dell’art. 2103 c.c. presenta un tratto comune con quella dell’art. 18: entrambe le norme, infatti, rompono la rigida uniformità regolativa inderogabile delle precedenti discipline, da taluni ritenute inique e oppressive, da altri invece garantiste. In relazione all’art. 2103 c.c., prima, in quell’unico primo comma, la mobilità orizzontale veniva disciplinata, o meglio, limitata, da una sola norma inderogabile, uniforme e a precetto generico, l’equivalenza; nella nuova versione invece la stessa vicenda della modificazione delle mansioni è articolata in quattro fattispecie. Analogamente, in relazione all’art. 18, dove prima era prevista una sola uniforme fattispecie sanzionatoria massima per tutte le svariate ipotesi di illegittimità del licenziamento, nella nuova disciplina le tutele vengono invece graduate mediante quattro regimi differenti che si applicano a seconda di una variegata tipologia di vizi del licenziamento.
Infine, merita segnalare che nella legge delega di riforma del processo civile L. 26 novembre 2021, n. 206, l’art.1, comma 4, lett. q, stabilisce che venga introdotta la negoziazione assistita anche in materia di lavoro, senza che ciò costituisca condizione di procedibilità dell’azione. Si potrà ricorrere a questa sede a condizione che ciascuna parte sia assistita dal proprio avvocato, nonché, ove le parti stesse lo ritengano, anche dai rispettivi consulenti del lavoro. La novità è che al relativo accordo è assicurato il regime di stabilità protetta di cui all’art. 2113 c.c. Al riguardo è inutile riaprire una polemica annosa riguardante il motivo per cui il legislatore non abbia fino ad ora mai voluto conferire gli effetti di cui all’art. 2113 c.c., alle rinunzie e transazioni stipulate dal lavoratore con la “sola” assistenza del suo avvocato di fiducia, che invece sarebbe la figura più idonea a valutare la convenienza dell’accordo per il suo assistito.
In relazione al processo così sinteticamente descritto di riduzione della normativa inderogabile, non è condivisibile evocare “crisi” o “tramonti”, o addirittura “decessi” dell’inderogabilità . Quello che è stato realizzato, infatti, è un allentamento moderato e controllato di quella “porzione” di inderogabilità che aveva determinato una “onnipervasiva intangibilità delle discipline di tutela” ; anche a livello individuale, il “modello unico anni settanta” di inderogabilità generalizzata aveva generato eccessiva uniformità, da taluni ritenuta oppressiva, che risultava abbastanza anacronistica, in quanto gran parte dei lavoratori ormai è in grado di procurarsi un’efficace assistenza per adeguare il contratto individuale, in particolari condizioni, alle loro specifiche esigenze concrete, così come è sempre avvenuto in relazione ai negozi abdicativi. Non è dunque condivisibile l’idea che si sia realizzata “una società in cui gli individui sono divenuti liberi di negoziare le proprie condizioni di lavoro” , per la semplice ragione che, se ciò accedesse, il diritto del lavoro negherebbe sé stesso. A pieno titolo, quindi, l’inderogabilità può essere considerata ancora la tecnica “presupposto” per l’effettività delle tutele del lavoratore , ovviamente non esaustiva.
Ad essa si accompagna infatti la tecnica della nullità, o, più raramente, dell’annullabilità, che impongono non un obbligo ma un limite all’attività dei poteri privati, con la conseguenza che l’inosservanza della norma sarà l’invalidità dell’atto e non la previsione o la repressione, mediante l’impostazione di un obbligo secondario a carico del responsabile dell’illecito ; di qui la differenza con le sanzioni in senso proprio.
L’inderogabilità è anche il presupposto dell’altra caratteristica fondamentale costituita dalla tecnica della sostituzione legale automatica del regolamento imposto dalla fonte superiore, legislativa e collettiva, a quella concretamente voluta dalle parti, in base all’altrettanto fondamentale principio della nullità parziale fissato dal comma 2 dell’art.1419 c.c.
Questa tecnica non è ovviamente “indolore” per la certezza del diritto, specialmente in tutte le situazioni in cui la correzione dell’originario regolamento negoziale viene effettuata dall’accertamento giudiziale a distanza di tempo, anche a seguito di esiti contrastanti nei vari gradi di giudizio. La storia della nostra materia è piena di simili delicati, quanto costosi, problemi interpretativi e di come le correzioni possano operare retroattivamente nel tempo in un rapporto di durata ; problemi che alle volte hanno costretto il legislatore ad intervenire in via correttiva, come nel contratto a tempo determinato. La casistica è ampia e nota: si va da quelle relativa all’apposizione del termine illegittimo, o quelle in cui la nullità si abbatte nelle fattispecie di dissociazione tra datore di lavoro formale e l’utilizzatore, come nella ipotesi dell’appalto illegittimo, oppure allorquando l’effetto demolitorio riguarda il presupposto della sostituzione di un datore ad un altro, come nel caso del trasferimento illegittimo di ramo d’azienda.
5. L’improvvisa accelerazione e la madre di tutte le riforme: la modificazione dell’art. 18 statutario.
Sotto l’incalzare della crisi finanziaria, iniziata nel 2008, e delle spinte dell’Unione Europea, non poteva più continuare il tendenziale conservatorismo riguardante il sistema delle tutele nei confronti del potere di licenziamento, che aveva resistito a tutte le stagioni dell’emergenza e della crisi del diritto del lavoro e a ben due rivoluzioni industriali. L’art. 18 Stat. lav. rimaneva quindi “la madre di tutte le riforme”, considerato l’alto valore simbolico e politico che la norma aveva assunto e tenuto conto che nel licenziamento, dopo tutto, è da ravvisare il massimo potenziale di dominio dell’imprenditore sull’organizzazione del lavoro; ragion per cui è importante contestualizzare tale fondamentale riforma per evitare giudizi eccessivamente astratti.
Nel 2009 l’economia italiana subiva una delle peggiori recessioni della sua storia, allorquando il PIL segnava una contrazione del 5%. L’allora governo Berlusconi arrancava, e non avendo la forza politica di modificare l’art. 18, si limitava ad eliminare una delle non secondarie storture del sistema della reintegrazione a risarcimento illimitato, e cioè la possibilità per il lavoratore, dopo l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, di attendere fino a cinque anni per introdurre la causa termine di prescrizione dell’azione di annullamento, e anche oltre, se il licenziamento era nullo; tutto ciò al fine di lucrare il più possibile sul sistema del risarcimento parametrato alle retribuzioni perdute, che si andava a sommare a quello che si accumulava a causa dei lunghi tempi del processo, soprattutto se il lavoratore risultava vittorioso solo nei successivi gradi di giudizio, potendosi arrivare a risarcimenti di oltre dieci anni di retribuzione, se il licenziamento veniva annullato in sede di giudizio di rinvio dalla Cassazione. Il fenomeno era aggravato da un discutibile orientamento giurisprudenziale che, come vedremo, tendeva a svalutare la rilevanza di questa inerzia del lavoratore ai fini della prova presuntiva della aliunde perceptum o percipiendum. Veniva così introdotto, con l’art. 32 della legge n. 183/2010, il termine di decadenza giudiziale, che impone al lavoratore di introdurre la causa di impugnativa del licenziamento entro 180 giorni . Risultano poco comprensibili le critiche mosse a tale norma, giacché qui si tratta, non solo di evitare il fenomeno distorsivo sopra citato, ma inoltre di un ragionevole bilanciamento con la necessità della certezza del diritto e la lealtà dei rapporti giuridici .
La crisi precipitava nel 2011, quando la speculazione internazionale metteva nel mirino i debiti sovrani di Italia e Grecia; anche l’euro rischiava di crollare salvato a un soffio dal dramma dal “Whatever it takes” di Draghi, nel frattempo passato alla BCE. Le ripercussioni internazionali della crisi erano molto più forti in Italia perché rispetto agli altri partners europei soffriva di gravi debolezze strutturali; per quanto riguarda più specificamente il mondo del lavoro, basti ricordare il dato impietoso della produttività 2000-2016, in cui l’Italia era scresciuta solo del +0,4% rispetto al 15% di Francia, Spagna e Regno Unito, al 18% della Germania, al 25,5% degli USA fonte OISE. Sopraggiungeva, così, la famosa lettera che il 5 agosto 2011 Draghi e Trichet indirizzavano al Governo italiano, in cui venivano indicate una serie di misure necessarie per ristabilire la fiducia degli investitori, tra le quali “l’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti stabilendo un sistema di assicurazione della disoccupazione”.
Si trattava del secondo brusco risveglio per la nostra materia, dopo quello del 1973. Il legislatore, nel fare quelli che erano stati definiti spregiativamente dai sovranisti “i compiti a casa”, optava per non riformare anche o solo le causali del licenziamento, che pure risalivano a oltre quarantacinque e settanta anni prima, rinunciando ad introdurre qualche certezza in più, ad esempio a proposito del repêchage nel giustificato motivo oggettivo, quanto meno in ordine al periodo temporale e all’ampiezza della mansioni da prendere in considerazione per la prova della inesistenza di posizioni libere; oppure mediante la tipizzazione legale di alcune ipotesi di giusta causa su alcuni aspetti maggiormente controversi in giurisprudenza.
La tecnica della riforma dell’art. 18 è nota; la sua peculiarità risiede nell’aver posto fine all’uniformità sanzionatoria che caratterizzava il precedente regime, che vincolava il giudice, senza nessuna discrezionalità, ad applicare sempre la medesima massima sanzione, e che quindi equiparava iniquamente, e forse incostituzionalmente, situazioni tra loro anche molto differenti, come il più odioso dei licenziamenti discriminatori, con quello sostanzialmente giustificato magari da un reato gravissimo del dipendente, ma illegittimo per un banale vizio procedimentale, senza possibilità di graduare tali conseguenze a seconda della gravità dell’illegittimità .
Peraltro, il mito della reintegrazione generalizzata era già entrato in crisi da tempo e resisteva più che altro perché era diventata una battaglia politica contingente contro i governi di centro destra. Infatti, come è stato realisticamente affermato, “era noto che la tutela reale, non esistendo allo stato adeguati efficaci strumenti di coercizione dell’ordine di reintegrazione non è realizzabile” , ed infatti non si realizzava quasi mai, degradando, nei fatti, a tutela obbligatoria, anzi, iper obbligatoria , in quanto la coercizione indiretta costituita dai notevoli oneri di un’obbligazione retributiva che non si estingueva con il licenziamento illegittimo, nella prassi del contenzioso aveva soltanto favorito transazioni economicamente molto vantaggiose per il lavoratore.
Anche il legislatore aveva mostrato in qualche modo di arrendersi a questo stato di fatto, allorquando decise, con la L. n. 108/90, di monetizzare la reintegrazione, introducendo l’indennità sostitutiva. Finiva così definitivamente l’idea che la reintegra fosse indissolubilmente connessa con la dignità della persona, come puntualizzato ripetutamente dalla Corte costituzionale, che non ha mai ritenuto l’art. 18 a contenuto costituzionalmente obbligato .
Tre anni dopo veniva attuato il Jobs Act che, tra l’altro, portava a compimento la riforma del regime sanzionatorio del licenziamento.
Ferma rimanendo la reintegrazione totale vecchia maniera per i licenziamenti c.d. odiosi, cioè discriminatori, ritorsivi, in maternità, ecc., e per quelli orali, su alcuni aspetti il legislatore ha tentato di porre fine ad alcune interpretazioni abrogatrici dell’art. 18, comma 5, inserendo nell’art. 3, comma 2, una previsione per chi non voleva capire, e cioè che all’insussistenza del fatto materiale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento; poi il legislatore ha esagerato aggiungendo la parola “materiale” all’insussistenza del fatto e qui stavolta la giurisprudenza ha condivisibilmente ignorato una simile aggiunta equiparando l’insussistenza del fatto al fatto lecito, fermo restando l’estraneità della valutazione sulla sproporzione .
Inoltre, è stato realizzato quello che aveva tentato ma non era riuscito a fare il precedente Governo, e cioè l’abolizione completa della reintegrazione per il licenziamento per motivi oggettivi, a meno che non intervenga anche qui la Corte costituzionale, sviluppando e portando a compimento l’impostazione sulla quale ha basato le sentenze 1° aprile 2021, n. 59 e 19 maggio 2022, n. 125, con i problemi che vedremo nel par. 7.
Altra soppressione rilevante è stata quella della seconda causale della reintegrazione prevista dall’art. 18, comma 4, riguardante il licenziamento basato su previsione collettiva di sanzione conservativa, quasi presagendo le attuali prese di posizione di una parte della giurisprudenza, che vedremo.
Ma la blindatura del regime sanzionatorio si è avuta con l’introduzione del criterio di determinazione ex ante dell’indennità a c.d. “tutele crescenti” calcolato sulla sola anzianità del lavoratore.
Questo criterio era stato introdotto non surrettiziamente, come alle volte è avvenuto con i legislatori “piccoli ma scaltri”, ma in osservanza della volontà parlamentare che si era espressa nella legge delega, che obbligava il Governo ad adottare un decreto legislativo nel rispetto – tra gli altri – di un preciso criterio direttivo in caso di licenziamento ingiustificato, consistente nella previsione di un “indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio”. Una simile scelta era basata su di una precisa finalità, anch’essa rinvenibile nella volontà parlamentare espressa nella legge delega, individuata nello “scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione”. La finalità era, dunque, quella di combattere la disoccupazione, in quanto a novembre 2014, i senza lavoro avevano toccato un nuovo picco arrivando a 3,4 milioni, con un tasso di disoccupazione del 13,4%, con il 43,9% tra i giovani; questi dati ponevano l’Italia ben al di sotto della media europea, che si aggirava intorno all’11% e alla Germania che stava al 6,5%.
Alla luce della suddetta contestualizzazione, emerge prepotentemente l’opzione di fondo, al di là di tutte le più o meno sottili questioni interpretative: si può, e anzi si deve, discutere a livello scientifico, se un indennizzo economico certo contro il licenziamento illegittimo sia efficace o no al fine di aumentare la propensione delle imprese ad assumere, oltre che ad attrarre investitori esteri; quello che si può discutere meno, forse, è che questa scelta sia di esclusiva competenza della discrezionalità legislativa . Invadere questo campo, come pure vedremo, è una manifestazione fenomenologica tipica della c.d. “età della giurisdizione”. Oltretutto, questa scelta è stata riconosciuta costituzionalmente ragionevole perfino dalla quella stessa sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, quando si è trattato di rigettare la questione sulla disparità di trattamento con i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, motivando proprio in base alla ragione giustificatrice “costituita dallo scopo dichiaratamente perseguito dal legislatore, appunto di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro per chi di un lavoro fosse privo” punto 6 della motivazione. Ragione, questa, che però poi non è stata presa in considerazione, neppure per confutarla, nell’ altra parte della medesima sentenza che ha bocciato il meccanismo delle tutele crescenti.
6. La stagione delle controtendenze: a) la legislazione
Il carattere fortemente innovativo del Jobs Act, ma anche della L. n. 92/2012 ha però provocato a sua volta una reazione difensiva e avversativa volta a disinnescare il potenziale riformistico, poiché tali riforme impattavano sulle abitudini culturali e ideologiche di ampia parte della giurisprudenza e della dottrina del diritto del lavoro. Ed infatti, non sono mancate accuse di neoliberismo, di profonda portata destrutturatrice, di piano inclinato delle tutele, di univoche tendenze regressive, ecc. .
Queste disapprovazioni, come è avvenuto non poche volte nella nostra materia, sono state determinate anche, o forse soprattutto, dal dissenso nei confronti del disegno politico del quale quei provvedimenti legislativi, e soprattutto quello del 2015, hanno rappresentato una delle più significative attuazioni . Disegno politico tramontato con la sconfitta del sì al Referendum e con la vittoria elettorale dei partiti populisti-sovranisti nel 2018.
E così, dapprima una parte della dottrina e della giurisprudenza, poi i Governi succedutisi e soprattutto la Corte costituzionale, hanno frapposto forti resistenze culturali e inaugurato una stagione di controtendenze .
Infatti, Lega e Cinque Stelle iniziavano la loro inedita alleanza scegliendo di intervenire proprio sul diritto del lavoro come uno dei primi provvedimenti per evidenziare la svolta politica, tant’è che già dal titolo del decreto, che evoca la dignità del lavoratore unitamente alla dignità delle imprese, facevano subito capire quale sarebbe stato l’uso del testo normativo anche con finalità di propaganda. Veniva così apportata l’ennesima riforma al contratto a termine, che riportava indietro la tecnica delle causali di oltre cinquant’anni, non trovando di meglio che riesumare, senza neppure uno sforzo di adattamento, la vecchia giustificazione delle punte di attività non programmabili, che tanti danni aveva causato, perché, anche se la punta di attività è programmabile, la maggiore esigenza di personale resta comunque temporanea e quindi non si può costringere l’azienda ad avere un organico sovradimensionato con i lavoratori sottoutilizzati nei periodi in cui la produzione ritorna a livelli di normalità .
Inoltre, sempre nel suddetto decreto, veniva elevata la misura minima e massima dell’indennità per il licenziamento ingiustificato prevista dagli art. 3, comma 1, D.L.vo n. 23/2015, portandola da quattro a sei la minima e da ventiquattro a trentasei la massima; significativamente, però, neppure la volontà parlamentare del nuovo corso populista riformista riteneva di modificare il criterio di determinazione dell’indennità basato solo sull’anzianità, che invece di lì a pochi mesi la Consulta avrebbe abolito.
In questi ultimi anni, la controtendenza rispetto alla precedente regressione delle tutele è proseguita con una serie di provvedimenti; qui se ne ricordano alcuni, che non sono andati esenti neppure loro dalla connotazione alluvionale e da “lacune di collisione” .
A) La modifica dell’art. 2, D.L.vo n. 81/2015, mediante la legge 2 novembre 2019, n. 128, sulle collaborazioni eterorganizzate che, per la prima volta dal 1942, ha tentato di ampliare l’applicabilità della disciplina del lavoro subordinato oltre i confini dell’art. 2094 c.c. mediante la sostituzione della dicitura “prestazioni esclusivamente personali” con quella “prevalentemente personali”, aumentando il già notevole caos sistematico; è stato anche soppresso il riferimento più restrittivo all’eterorganizzazione “anche dei tempi e del luogo di lavoro”. Ancora è incerto, però, a livello di contenzioso, se invece non continui a rimanere più favorevole, per chi vuole conquistare la disciplina protettiva della subordinazione per via giudiziaria, invocare, piuttosto che l’art. 2, la giurisprudenza sulla subordinazione attenuta, che si accontenta di qualche indice secondario, forse più agevole da provare rispetto al requisito dell’organizzazione delle “modalità di esecuzione” della prestazione, ovviamente se interpretato con un minimo di fedeltà al significato delle parole della legge.
B Caso unico in Europa e non solo, si è imposto il divieto di licenziamenti individuali per motivo oggettivo e collettivi, per la durata di oltre quindici mesi, ben oltre la fase del lockdown, anche quando tutte le aziende avevano ripreso normalmente la loro attività, esteso indistintamente a tutte le ipotesi di giustificato motivo oggettivo, anche a quelle che nulla avevano a che fare con l’emergenza Covid. La perplessità, anche di ordine costituzionale, sulla peculiarità di questo blocco indiscriminato, è stata vista nell’essere una misura eccedente le finalità di tutela del reddito del lavoratore durante la pandemia, conseguibile ugualmente, con i medesimi costi per la spesa pubblica, mediante misure alternative quali l’estensione degli ammortizzatori, invece di comprimere, per così lungo tempo, il diritto del datore di lavoro privato – che deve competere sul mercato globale con imprese che non hanno questi vincoli – alla determinazione del livello del proprio organico; il che ha fatto sorgere sospetti che sia prevalsa sulla razionalità giuridica la logica della visibilità politica. Per l’illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 41 Cost. di analoghe limitazioni all’attività economica privata, si è espressa di recente la Corte costituzionale, con sentenza del 9 maggio 2022, n. 113 rel. Amoroso, a proposito di una legge regionale che imponeva alla Case di cura private accreditate di impiegare solo lavoratori con rapporto di lavoro subordinato per il personale sanitario dedicato ai servizi alla persona, ritenuta una “penetrante limitazione del potere organizzativo” dell’imprenditore, incompatibile con la norma costituzionale, non giustificata neanche con il fine sociale della tutela della salute.
C) Il provvedimento, previsto dalla legge di bilancio 30 dicembre 2021, n. 234, ai commi 224-238, pubblicizzato a livello mediatico come misura contro le delocalizzazioni, che prevede alcune ipotesi di nullità del licenziamento, anche se giustificato da esuberi reali, per violazioni della procedura ivi prevista. Con tale disciplina si impone, infatti, alle aziende con almeno 250 dipendenti, che intendano chiudere una sede, reparto o filiale in Italia, licenziando non meno di 50 dipendenti, un obbligo di comunicazione al Ministero, all’ANPAL, alle Regioni e alle organizzazioni sindacali, almeno 90 giorni prima dell’inizio della procedura collettiva, che, a sua volta, può durare altri 80 giorni, per un totale di più di 170 giorni in cui viene anche qui bloccato il potere di licenziamento. Per l’omissione della comunicazione iniziale è prevista la radicale nullità del licenziamento a prescindere dalla sua sostanziale giustificazione, con conseguente ordine di reintegrazione per decine e decine di lavoratori in uno stabilimento, che però potrebbe essere definitivamente chiuso, in quanto uno dei presupposti per l’applicazione della procedura è che il motivo del licenziamento consista proprio nella chiusura del sito produttivo. La normativa prevede una procedura farraginosa piena di problemi interpretativi che lasciano ampi margini di ambiguità e di incertezze.
7. segue: b) La controriforma della Corte costituzionale
Nel periodo che va dal 2018 ad oggi si è avuta soprattutto la controriforma ad opera della Corte costituzionale, attuata con il suo quadruplice per ora intervento demolitore di alcuni dei nuovi regimi di tutela , e con una sentenza “monito” a proposito del regime di tutela per le piccole imprese .
La suddetta azione riformatrice era stata apertamente invocata da chi intendeva contrastare quelle che venivano considerate le tendenze neoliberiste del Jobs Act e per invertire così la loro temuta profonda portata destrutturatrice; di qui appelli vari alla giurisprudenza affinché facesse argine a scelte ritenute di sostanziale tradimento del progetto costituzionale.
Ed infatti la Consulta non è rimasta sorda al grido di dolore che si levava da una parte della dottrina. Come acutamente è stato notato “il vero e più importate connotato delle tre sentenza è di natura politica” .
Tuttavia, talune forzature, o alcune impostazioni argomentative delle suddette sentenze, o “sbrigative motivazioni” , nonché la torsione a cui la Consulta ha piegato alcuni istituti pur di raggiungere lo scopo , hanno suscitato, in altra parte della dottrina, la sensazione della “eccedenza del discorso politico sull’interpretazione costituzionale” . Basti por mente, ad esempio, al diverso ruolo che viene assegnato dalla Corte alla discrezionalità del giudice nel graduare al sanzione, ritenuta addirittura costituzionalmente obbligata nella sentenza 194/2018, ed invece irragionevole nelle altre due pronunce sul giustificato motivo oggettivo, a seconda che questa discrezionalità giochi a favore o no del lavoratore; oppure, alla diversa importanza che viene attribuita alla certezza del diritto, ignorata nella sentenza 194, e invece valorizzata nelle sentenze sul giustificato motivo oggettivo per sostenere l’incostituzionalità del “può” e del “manifesta”, anche qui sempre a seconda del favor per il lavoratore; oppure ancora, nella sentenza n. 59/21 ma anche nella sentenza n. 125/22, alla “assenza di qualsiasi considerazione”, che ha “destato meraviglia” , in ordine alla differenza strutturale tra un licenziamento disposto per ragioni soggettive e un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Siamo di fronte, in sostanza, a sentenze figlie dell’età della giurisdizione.
In effetti poche volte nella sua storia la giurisprudenza della Corte costituzionale e sempre con lo stesso relatore si è mostrata così apertamente contraria ad una riforma decisa dal legislatore, alimentando la sensazione che l’intenzione sia stata quella di smantellare una certa stagione del diritto del lavoro. Quale organismo istituzionale dotato di sovranità assoluta, la nostra Corte costituzionale nel passato è sempre stata molto attenta ad evitare forzature oppositive alle scelte del legislatore; al riguardo è stata ricordata, con una sorta di nostalgia, la motivazione di una celebre sentenza della Consulta, presieduta da A.M. Sandulli, in cui si afferma come sia dovere della Corte “mantenere l’esercizio del controllo entro quei confini al di là dei quali si darebbe luogo ad usurpazione delle valutazioni discrezionali e di politica legislativa spettante al Parlamento” ; sono stati invece sollevati condivisibili dubbi che, in relazione alla pulsione restauratrice del rimedio della reintegrazione, l’attuale Consulta “sia riuscita a mantenere l’opportuno self restraint” . Uno dei commenti forse più realistici è stato di un giudice di Cassazione, Amendola, che, in un suo articolo sulla Rivista italiana di diritto del lavoro, a proposito della sentenza n. 194/2018, ha scritto, riferendosi alla sentenza n.194, che essa “suscita clamore quale un redde rationem tra vincitori e vinti” .
Le sentenze da cui forse emerge più evidente questa eccedenza del discorso politico sono l’ultima per ora, la n. 125/2022, e la terza, la n. 59/2021, che hanno ritenuto incostituzionale la norma del comma 7 dell’art. 18, nei suoi due elementi che la differenziavano dalla causale del comma 4, sull’insussistenza del fatto contestato, e cioè l’attribuzione al giudice del potere equitativo di decidere se applicare la sanzione dell’indennità al posto della reintegrazione, nonché il carattere di “manifesta” che doveva presentare l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per motivi oggettivi .
Infatti la Consulta, pur non spingendosi a rinnegare il suo principio secondo cui la reintegrazione non è costituzionalmente necessitata, ed anzi ribadendo espressamente che il legislatore, “ben può delimitare l’ambito operativo della reintegra” punto 10 della sentenza n. 59/2021, erode un altro caposaldo della riforma del regime di tutele voluta dal legislatore e cioè la riduzione ad eccezionalità e a residualità della tutela reintegratoria in generale, ma volutamente in modo ancor più marcato in relazione all’ingiustificato motivo oggettivo, come dimostrato, non solo dal requisito dell’insussistenza del fatto che, a differenza del licenziamento per colpa, qui deve essere addirittura manifesta, ma anche dall’evoluzione più radicale di questa scelta con il decreto n. 23/2015, in cui la reintegrazione è stata poi eliminata del tutto.
Tra l’altro non occorre un particolare sforzo di immaginazione per intuire che i motivi di quella scelta del legislatore erano dettati proprio dalla e per controbilanciare la genericità della norma del giustificato motivo oggettivo ed in particolare dalle incertezze applicative e dalle difficoltà probatorie riguardanti l’ampiezza temporale e mansionistica del repêchage. Ma le esigenze di certezza prese in considerazione dalla Consulta nel ragionamento problematico sul bilanciamento dei contrapposti interessi sono state solo quelle relative al lavoratore.
Per quanto riguarda la sentenza n. 59/2021, proprio dal rifiuto di questa sistemazione più generale voluta dal legislatore, nasce il disconoscimento da parte della Consulta della ratio più specifica della previsione della possibilità e non dell’obbligo della reintegrazione, che era quella di lasciare alla reintegrazione per il licenziamento per motivi economici ingiustificato uno spazio ancor più residuale rispetto al licenziamento per colpa, come una sorta di possibilità di miglior favore per il lavoratore rispetto alla ordinaria sanzione indennitaria, per i casi in cui il giudice, con la sua equità integrativa, avesse appurato la difficoltà del reperimento di altra occupazione da parte del lavoratore stesso.
È chiaro che si trattava di un nuovo paradigma rispetto a quello tipico del vecchio art. 18, ma è altrettanto evidente che il voler continuare a valutare la legittimità di tale nuovo assetto con lo sguardo nostalgico sempre rivolto all’indietro al precedente sistema, determina poi una invasione di campo restauratrice rispetto al potere legislativo, se è vero che dai principi costituzionali non può evincersi alcuna opzione vincolata per la reintegrazione.
Vi è un passo della sentenza n. 59/2021 che appare significativo del ruolo che si è autoassegnata la Consulta in questa materia e riguarda la mediazione politica dalla quale è nato il “può”, che non era una sbavatura tecnica, bensì un punto di arrivo di una serrata trattativa . Di ciò la Corte si mostra consapevole, laddove afferma che: “L’attuale formulazione scaturisce dalla mediazione tra opposte visioni, all’esito di un acceso dibattito parlamentare”. A questo punto la Corte si sente in dovere di prendere posizione su quel dibattito politico parlamentare ed afferma: “Le critiche alle disarmonie della previsione censurata, emerse nel corso dell’approvazione del disegno di legge … non hanno condotto alla reintroduzione della reintegrazione obbligatoria, pur proposta a più riprese” punto 6, 3° cpv. In questo modo la Consulta, nel superare la suddetta mediazione voluta dal legislatore, fa trasparire l’intenzione, per così dire, di “rimettere le cose a posto”, laddove non erano riuscite in questo intento, per mancanza di forza parlamentare, e quindi di voti, le forze politiche contrarie. Ed infatti è stato osservato come “di fronte alla sbrigativa motivazione della Corte si potrebbe ragionevolmente dubitare che il giudice delle leggi non abbia resistito alla volontà di sopprimere una norma -frutto di un faticoso compromesso politico in sede parlamentare- che perseguiva chiaramente l’obiettivo di restringere il più possibile il campo di applicazione della reintegrazione nei casi di giustificatezza del licenziamento economico” .
Alla luce del suddetto intento riformatore, di cui la Corte si sente investita in materia di regimi sanzionatori del licenziamento, si spiegano allora talune forzature argomentative dei due motivi sui quali si basa la dichiarazione di incostituzionalità del “può”. Non a caso, nel far ciò, la Corte utilizza il termine “disarmonie”, che, se è concetto giuridicamente evanescente, esprime bene, però, una valutazione di valore tipicamente di politica del diritto.
É emblematico in questo senso il primo motivo della sentenza n. 59/2021, riguardante la presunta violazione del principio di uguaglianza nei confronti della obbligatorietà della reintegrazione prevista per il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo a fronte della insussistenza del fatto. La Consulta si rende conto che si tratta di due fattispecie differenti punto 9: “Le peculiarità delle fattispecie …”, ma ciò non le basta, in quanto ritiene che la sanzione della reintegrazione debba comunque essere applicata anche al licenziamento ingiustificato per motivo oggettivo in ragione della somiglianza, e ora, dopo la sentenza n. 125/2022, dell’identità, del suddetto presupposto.
Non si è voluta vedere, dunque, la differenza qualitativa e “ontologica” tra le due fattispecie, che perciò esclude la violazione del principio di uguaglianza a parità di grave ingiustificatezza: nel licenziamento per “colpa”, motivato da un notevole, o più che notevole, inadempimento, o comunque da un fatto così grave da far venir meno definitivamente la fiducia, il datore di lavoro colpisce la dignità e la personalità del lavoratore che si vede accusare di un illecito gravissimo che neppure ha commesso; nulla di tutto ciò è invece configurabile nel licenziamento motivato da ragioni aziendali, in cui si verifica la differente fattispecie del mancato assolvimento, più o meno evidente, dell’onere della prova da parte del datore relativamente alla soppressione del posto o all’impossibilità del repêchage.
La conferma di questa differenza, sottovalutata dalla Corte, si ricava, a livello sistematico, dalla specifica disciplina procedimentale che prevede una fase garantistica stragiudiziale solo per il licenziamento disciplinare, imposta addirittura da principi di “civiltà giuridica” , pur esaltati dalla stessa Consulta nella precedente sentenza, n. 150/2020, a proposito dell’art. 4, D. L.vo n. 23/2015. Tant’è vero che si è elaborata in giurisprudenza una concezione “ontologica” del licenziamento disciplinare, al fine di sottrarne la qualificazione in tal senso alla disponibilità del datore di lavoro, e perfino al contratto collettivo , tutte le volte in cui il suo motivo consista in una “colpa” del lavoratore . Ulteriore conferma della distinzione, sempre a livello sistematico, è rinvenibile nella differente tecnica sanzionatoria prevista nei casi in cui viene di nuovo in rilevo la persona del lavoratore, anche se per motivi oggettivi, come nell’insussistenza dell’idoneità fisica, per il quale il medesimo comma 7 ripristina la sola tutela reale, così come, peraltro, per un asserito ma non vero superamento periodo di comporto .
Trattandosi di fattispecie differenti, parzialmente differente era stata dunque la tecnica sanzionatoria prevista dalla norma. Sicché pare arduo negare che una tale scelta non appartenga alla legittima discrezionalità del legislatore se ci si scrolla di dosso il tabù della reintegrazione.
Per quanto riguarda il secondo motivo di incostituzionalità della sentenza n. 59/2021, e cioè l’eccessiva genericità del “può”, che secondo la Corte finirebbe per essere disancorato da precisi punti di riferimento, qui la sentenza non ha ritenuto di approfondire l’interpretazione dell’enunciato normativo alla luce della ratio complessiva della disposizione. Sul punto, infatti, la Consulta non ha considerato che quel “può” rivolto al giudice non era una irragionevole norma indeterminata, bensì veniva a configurare un normale giudizio di equità, al pari di tanti altri di questo tipo disseminati nel nostro ordinamento anche relativamente alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato , come ad esempio, in materia di retribuzione, di periodo di comporto, ferie, preavviso, ecc.
Era la diversa funzione che il legislatore aveva qui assegnato alla reintegrazione che appariva abbastanza evidente, in quanto,
mediante la tecnica del giudizio di equità, si era inteso guardare al futuro delle parti di quel rapporto per demandare alla valutazione, appunto equitativa del giudice, il migliore contemperamento tra gli opposti interessi . Pertanto, la motivazione della scelta del giudice, nell’accordare o negare la reintegra, si sarebbe logicamente e inevitabilmente dovuta orientare dando rilevanza a tutti quegli elementi connessi alla situazione di fatto posteriore e successiva al licenziamento, la sola che potesse rilevare al fine di decidere se reintegrare il lavoratore, assicurandogli una retribuzione per il futuro, oppure riconoscergli subito una somma una tantum costituita dall’indennità ex comma 5. Sicché, appariva logico che avrebbero assunto rilevanza a tal fine i fatti riguardanti la posizione delle parti, primo tra tutti se il lavoratore avesse reperito nelle more altra occupazione a tempo indeterminato, o se invece il mercato del lavoro della sua qualifica fosse in particolare “sofferenza”, ecc. Insomma, si trattava di una concezione un po’ diversa dal solito automatismo sanzionatorio a cui ci aveva abituato per oltre quarant’anni il vecchio art. 18, poiché qui l’equità serviva ad attenuare le rigorose conseguenze date dalla peculiarità del caso, consentendo quindi di valutare se vi fossero le condizioni per concedere al lavoratore la reintegrazione invece dell’ordinaria sanzione indennitaria.
Erano questi, o simili, i criteri che la Corte avrebbe potuto indicare nella motivazione –come peraltro ha fatto nelle due precedenti sentenze – che avrebbero dovuto guidare il giudice nell’esercizio del suo potere equitativo, adottando perciò una sentenza interpretativa di rigetto e rispettando così la scelta del legislatore in ordine alla tecnica normativa prescelta.
Analoghe riflessioni critiche sollevano la più recente – a questo punto sarebbe azzardato parlare di “ultima” – sentenza della Corte costituzionale, la n. 125/2022, che ha soppresso la parola “manifesta” dal comma 7, secondo periodo dell’art. 18 Stat. lav., a proposito della insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
È singolare che la questione di costituzionalità sia stata sollevata sempre nel medesimo giudizio pendente presso il Tribunale di Ravenna, che dapprima aveva rimesso la questione del “può” in ordine alla reintegrazione; sfugge il motivo per cui entrambe non siano state sollevate insieme per evitare questo andirivieni a puntate con la Consulta nell’ambito dello stesso processo, con le parti che ancora stanno aspettando la decisione.
Nel merito la Corte, come nella sentenza sul “può,” ha ritenuto l’aggettivo “manifesta” in violazione del principio della ragionevolezza in quanto “innanzitutto indeterminato” e che quindi “si presta infatti a incertezze applicative e può condurre a soluzioni difformi con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento”, quando invece “vi sono fondamentali esigenze di certezza”.
Sicché, anche qui, questo argomento non può che destare stupore in quella parte dei commentatori, tra cui chi scrive, che hanno criticato la sentenza n. 194/2018 laddove ha introdotto nell’ordinamento una norma, quella risultante dal dispositivo, appunto del tutto indeterminata quanto ai criteri da applicare per il calcolo dell’indennità tra il minimo di 6 e il massimo di 36 mensilità, esaltando la discrezionalità del giudice, ritenuta addirittura costituzionalmente obbligata, e che dunque potrebbe condurre a palesi ingiustificate disparità di trattamento nella determinazione dell’indennità in casi del tutto simili, nell’ambito di un range così ampio, a seconda di come il singolo giudice sceglie e pesa i vari criteri.
Ed anche qui, come nella sentenza sul “può”, la Consulta, per sfuggire a questa critica, sostiene che, nel caso dell’indennità per l’ingiustificatezza semplice dell’art. 3, comma 1, D.L.vo n. 23/2015, sarebbero rintracciabili criteri “puntuali” e “molteplici”, “attendibili e coerenti”, desumibili dall’ordinamento, frutto di una evoluzione normativa o di una prassi consolidata, su cui il giudice potrebbe fare affidamento per il suo “ponderato apprezzamento”, criteri che invece mancherebbero in relazione all’ingiustificatezza “manifesta”.
Vedremo, a proposito della sentenza n. 194/2018, come in realtà quei criteri siano tutt’altro che coerenti con le finalità che la Corte ha inteso attribuire all’indennità. Ma ciò che solleva le maggiori perplessità è il ritenere incostituzionale una norma perché è a precetto generico, quando non pochi aspetti parimenti importanti della disciplina del rapporto di lavoro sono regolati dalla medesima tecnica normativa. Un esempio evidente lo abbiamo proprio in materia di licenziamento con l’aggettivo “notevole” riferito all’inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore di cui all’art. 3, L. n. 604/1966, quale criterio fondamentale per la giustificazione del recesso per motivo soggettivo; senza dire di quello, ricavato in via interpretativa da quella formidabile norma indeterminata costituita dalla “causa che non consente la prosecuzione anche provvisoria” di cui all’art. 2119 c.c., del “più che notevole” inadempimento, per integrare la giusta causa, o, meglio, l’esonero dall’obbligo del preavviso . Dopo questa sentenza della Consulta anche tali disposizioni possono essere considerate a rischio di incostituzionalità per indeterminatezza. Se infatti la Corte costituzionale ritiene che il termine “manifesta” non assicuri “fondamentali esigenze di certezza” – proprio così è scritto nella motivazione – legate all’importanza delle conseguenze che la scelta stessa determina, egualmente queste esigenze si riscontrano per l’aggettivo “notevole”, che pure è altrettanto importante, da esso dipendendo la giustificazione del licenziamento. Né la differenza può essere vista nelle tipizzazioni fornite dal contratto collettivo, in quanto, laddove non sia applicabile l’art 12, L. n. 604/1966, esse non sono vincolanti per il giudice.
Si potrebbe obiettare che nel caso dell’inadempimento sono ravvisabili differenti graduazioni, che vanno da quello di scarsa importanza a quello di non scarsa importanza art. 1455 c.c., e a quello appunto di “notevole” importanza, mentre, come argomenta la Corte, “la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di «evidenza fenomenica» ma evoca piuttosto una alternativa netta, che il giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”. Ma l’obiezione non convince. Infatti, l’impressione è che la Corte non distingua, in relazione al concetto di “insussistenza del fatto”, il piano fenomenico da quello processuale. Come è noto i due piani possono non coincidere, in quanto l’accertamento di un fatto nel processo non dipende da una sua conoscenza diretta ma dal risultato della prova e dal convincimento del giudice. Un fatto può esistere ma di esso non si riesce a fornire la prova in giudizio, e ciò per svariati motivi, tra cui, ad esempio, il caso della prova incontrovertibile di un fatto ma non utilizzabile nel processo perché acquisita in modo non regolare. Ulteriore filtro, rispetto alla realtà esterna, è costituito nel processo dal convincimento del giudice sul materiale probatorio, tant’è vero che l’ordinamento trova la sua essenziale forma di chiusura nella regola di giudizio dell’onere della prova art. 2697 c.c., dettata per l’ipotesi in cui, al termine dell’istruttoria, permanga nel giudice l’incertezza su fatti rilevanti, pur esistenti al di fuori del processo sul piano fenomenico, per cui in tal caso il giudice è tenuto a pronunziarsi egualmente nel merito, decretando la soccombenza della parte onerata della prova. Inoltre, la differenza tra il piano dell’evidenza fenomenica e quello processuale si apprezza dalle conseguenze derivanti dal principio dispositivo del processo civile per cui, se un fatto viene negato da entrambe le parti, il giudice lo deve dichiarare inesistente anche se nella realtà esiste e così per l’ipotesi inversa, se la parte afferma un fatto non vero ma esso non viene contestato dall’altra parte. Satta lo ha definito “il mistero del processo” . Carnelutti scriveva che il termine “prova” si usa per il controllo della verità di una affermazione; non appartiene alla prova il procedimento per il quale si scopre una verità non affermata nel processo, di qui il principio per cui “oggetto della prova non sono i fatti ma le affermazioni” .
Esiste, è vero, per l’attribuzione del carattere “notevole” dell’inadempimento una prassi interpretativa più o meno consolidata, con i relativi standards applicativi, o indici presuntivi vari, come accade normalmente per l’interpretazione delle norme a precetto generico. Ma questa prassi si era praticamente già formata anche in relazione al requisito della “manifesta” insussistenza e sorprende che la Consulta non abbia fatto neanche il minimo accenno a questo orientamento che poteva dirsi consolidato in Cassazione, a differenza di altre volte in cui invece era stata molto attenta a recepire subito un diritto vivente pur appena nato, come nella pronuncia sulla doppia retribuzione nel caso di trasferimento illegittimo di azienda .
La Suprema Corte aveva infatti concordemente respinto l’interpretazione più estensiva che si era affacciata tra i giudici di merito , secondo cui, al fine di escludere il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto, fosse sufficiente la prova della soppressione del posto anche in assenza di quella dell’impossibilità del repêchage. La Cassazione aveva invece ripetutamente affermato che la reintegrazione era applicabile anche a fronte della manifesta insussistenza di uno solo dei due requisiti . Inoltre, l’orientamento si era consolidato nel senso di ritenere che tale aggettivo significasse “una particolare evidenza” , ovvero una “chiara evidente e facilmente verificabile” insussistenza del fatto, tanto da far emergere, ad esempio, la “chiara pretestuosità del recesso” ; e ciò sull’unico piano che può rilevare in un processo e cioè su quello probatorio; pertanto, è stato escluso che ricorresse tale carattere, ad esempio, a fronte di una prova “meramente insufficiente” , per ritenerlo invece configurabile in difetto del nesso di causalità, come nel caso del licenziamento motivato dalla cessazione di appalto senza collegamento con l’attività svolta dal lavoratore licenziato , oppure nella fattispecie di soppressione del posto indebitamente assegnato al lavoratore poi licenziato . Con questo orientamento la Suprema Corte era rimasta consapevolmente fedele alla ratio del nuovo regime sanzionatorio da lei correttamente individuata nella volontà del legislatore di riservare, soprattutto per il licenziamento per motivi oggettivi, la reintegrazione solo alle “ipotesi residuali che fungono da eccezioni” .
Alla luce di questa giurisprudenza non appare condivisibile neppure l’altro argomento utilizzato dalla Consulta secondo cui il presupposto in esame non avrebbe alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, ma dipenderebbe esclusivamente dal suo essere più o meno agevolmente provato in giudizio. Il su riportato orientamento della Cassazione mostra invece che tale presupposto era in grado di fare emergere la diversità del livello di ingiustificatezza del licenziamento al fine dell’applicazione del rimedio più severo.
La Corte ritiene incostituzionale che questo disvalore emerga solo a livello probatorio; ma v’è da chiedersi in un processo riguardante quaestio facti, su quale altro piano esso debba emergere. Sicché riaffiora la sensazione che si è vista prima, riguardante la mancata distinzione, da parte della Corte, del piano fenomenico da quello processuale. Qui, infatti, si tratta sempre di accertare la manifesta o no insussistenza di un fatto risultante dai mezzi legali e processuali.
Sempre seguendo questa logica, secondo la sentenza non è razionale che la reintegrazione dipenda da un accertamento “prima facie” dell’insussistenza del fatto. Neppure questo argomento però convince, in quanto l’aggettivo “manifesto” non vuol dire “sommario” o “superficiale”, né si identifica con il fumus bonis iuris, ma anzi significa l’opposto, e cioè “evidente”, “chiaro”, “che non lascia dubbi”, “definito da una indiscussa evidenza” Dizionario della lingua Italiana Devoto-Oli. Questa evidenza è quella stessa che può fondare il convincimento pieno del giudice e che dunque evita il ricorso alla regola finale del giudizio dell’onere della prova, come si è visto. Pertanto la manifesta insussistenza poteva benissimo ricorrere in caso di totale carenza probatoria della giustificazione in relazione alla soppressione del posto o del repêchage, se dall’istruttoria emergeva, ad esempio, che il lavoratore licenziato non risultava addetto al posto soppresso o se il lavoratore stesso era stato sostituito da altro, o se vi erano state assunzioni per mansioni fungibili nell’arco di un congruo tempo prima o dopo il licenziamento; ma, all’opposto, potevano emergere anche situazioni in cui, al termine dell’istruttoria, il giudice non riusciva a convincersi dell’insussistenza manifesta, come nel caso, ad esempio, di una incerta soppressione del posto motivata dalla redistribuzione di mansioni o da un affidamento in appalto interno delle stesse, oppure di dubbi sulle capacità professionali del lavoratore licenziato di svolgere proficuamente le mansioni libere alternative, o, più banalmente, di esiti contraddittori dell’istruttoria testimoniale intorno ai medesimi fatti. In tutte queste situazioni il giudice dichiarava ingiustificato il licenziamento in applicazione del principio dell’onere della prova ma condannava il datore al pagamento dell’indennità e non alla reintegrazione. Ora invece questa possibilità di graduazione rimediale è stata soppressa.
Con tutto questo non si vuole sostenere che la norma non potesse essere scritta meglio in quanto essa porta con sé le criticità comuni a tutte le disposizioni a precetto generico di questo tipo; ma ciò non appare un motivo sufficiente per dichiararla incostituzionale poiché l’interprete deve prendere su di sé la fatica del concetto di hegeliana memoria, tenendo conto della mediazione politica da cui è scaturita la norma e, soprattutto, della volontà del legislatore di relegare la reintegrazione solo alle ipotesi residuali. Tutto ciò ovviamente se non si è mossi da una precomprensione nostalgica per il vecchio uniforme sistema sanzionatorio o se si vuole perseguire un obiettivo di politica del diritto di controriforma in tal senso.
Ed infatti l’effetto della suddetta sentenza è proprio quello di abrogare sostanzialmente la tutela indennitaria per il licenziamento per motivo oggettivo che invece, nelle intenzioni del legislatore, doveva costituire la regola e non l’eccezione. Ciò risulta evidente se si considera che ormai, a seguito della duplice soppressione delle parole “può” sentenza n. 59/2021 e “manifesta” sentenza n. 125/2022, è stata sostanzialmente ripristinata la reintegrazione generalizzata in relazione alla modalità-motivazione tipica e più diffusa di tale licenziamento, quella per soppressione del posto. Infatti, soprattutto alla luce dell’orientamento giurisprudenziale secondo cui il fatto che deve sussistere è composto inscindibilmente da entrambi gli elementi della fattispecie e cioè la soppressione del posto e la prova dell’impossibilità del repêchage, a questo punto non si vede come possa essere configurabile una ipotesi di ingiustificatezza che non corrisponda anche alla “insussistenza semplice del fatto posto a base del licenziamento”. Pare evidente, infatti, che, al fine della sussumibilità in entrambe le fattispecie insussistenza e ingiustificatezza, è sufficiente che il datore di lavoro non riesca a dimostrare anche uno solo dei due suddetti elementi costitutivi, o comunque non riesca convincere il giudice; quest’ultimo, quindi, dovrà applicare, nell’incertezza, il principio dell’onere della prova e decretare la doppia soccombenza del datore, dichiarando ingiustificato il licenziamento e condannandolo alla reintegrazione. Non a caso il legislatore aveva aggiunto l’aggettivo “manifesta” in quanto altrimenti la tutela indennitaria non avrebbe avuto quasi mai applicazione, tranne, forse, nelle ipotesi marginali di violazione della buona fede e correttezza nella scelta dei lavoratori nel caso di licenziamento individuale plurimo, ove sia stata però già dimostrata la effettiva soppressione del posto e l’impossibilità della utilizzazione alternativa del lavoratore.
Il che solleva interrogativi, anche un po’ inquietanti, in relazione ai rapporti con la primaria “funzione legislativa … esercitata collettivamente dalle Camere” art. 70 Cost. La stessa Corte costituzionale, precedentemente , aveva censurato la tecnica del “ritaglio” in riferimento alla richiesta di Referendum abrogativi, dichiarandone l’inammissibilità proprio perché con tale tecnica si manipolava la struttura linguistica della disposizione, prendendo forma un assetto normativo sostanzialmente nuovo, con stravolgimento dell’originaria ratio e struttura dell’intera disciplina, per introdurre una nuova statuizione, del tutto estranea al contesto normativo e quindi da imputare alla volontà propositiva di creare diritto invadendo la volontà popolare e la discrezionalità del legislatore .
Altro problema di ordine costituzionale è quello che si potrebbe creare con l’art. 3, comma 1, D.L.vo n. 23/2015, in quanto ora la differenza in relazione alla reintegrazione si fa ancora più marcata tra gli assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, a fronte di una medesima ingiustificatezza del licenziamento per motivo oggettivo, anche se, a ben vedere, l’indennità da sei a trentasei mensilità di retribuzione ad alta discrezionalità giudiziaria è in grado di “rivaleggiare”, ai fini della tutela, con la reintegrazione a risarcimento limitato con indennità sostitutiva, considerato che quest’ultima si traduce quasi sempre in una negoziazione economica. In ogni caso qui la Corte dovrebbe essere vincolata al suo orientamento espresso proprio nella sentenza n. 194/2018, in cui ha ritenuto giustificata la differenza di tutele tra art. 18 e D.L.vo n. 23/2015; ma nulla è impossibile a questa Corte.
Infine, si potrebbe pensare che quest’ultima sentenza abbia portato a compimento, dal punto di vista della sanzione, la discutibile equiparazione, effettuata, come si è visto, nella precedente sentenza n. 59/2021, tra il licenziamento per motivo soggettivo-giusta causa, con quello per motivo oggettivo. Ma non sembra precisamente così, in quanto, proprio con questa più recente sentenza, la Corte, in realtà, ha squilibrato questo rapporto, perché, mentre in relazione al licenziamento per motivo soggettivo-giusta causa, la reintegra continua ad essere una eccezione rispetto al regime generale indennitario almeno per ora, il condizionale è ormai d’obbligo, anche in considerazione dell’orientamento che si sta formando sulle clausole generali del contratto collettivo che prevedono sanzioni conservative, con conseguente ampliamento, potenzialmente indeterminato, del campo di applicazione del comma 4, per quanto concerne il licenziamento per motivo oggettivo, invece, la reintegra diventa la regola e la tutela indennitaria una ipotesi del tutto residuale, venendo così completamente ribaltata la chiara volontà del legislatore che invece aveva voluto l’esatto contrario. Non a caso nella sentenza n. 125/2022, la Corte, nel motivare la sua decisione, non sembra più insistere sulla disparità di trattamento a livello sanzionatorio con il licenziamento per giustificato motivo soggettivo/giusta causa.
8. segue: c) La restaurazione giurisprudenziale del rimedio della reintegrazione per il licenziamento ingiustificato.
Anche nella giurisprudenza della Cassazione sono emersi orientamenti diretti a restringere lo spazio assegnato alla tutela indennitaria dall’art. 18 Stat. lav., nuovo testo, e ciò anche come “effetto trascinamento” della vis restauratrice della Corte costituzionale, sfruttando ed ampliando i varchi da questa aperti, sempre con l’effetto dello smantellamento dei tratti maggiormente innovativi della riforma del 2012, per ritornare tendenzialmente all’uniformità sanzionatoria precedente .
Si tratta di una delle manifestazioni più significative di quel fenomeno che abbiamo illustrato in precedenza, che va sotto il nome di età della giurisdizione, in quanto ne fa emergere tutti i caratteri peculiari sopra tratteggiati. Infatti, il giudice contrario al ridimensionamento del rimedio della reintegrazione, da lui ritenuto evidentemente il più “giusto”, anche ad onta della mediazione della legge, si è sentito investito della funzione, o compito salvifico, di imporre, in relazione alla riforma del sistema rimediale nei confronti del licenziamento ingiustificato, l’attuazione immediata e automatica di questi, per dirla con Irti, “assoluti e grandeggianti valori” , cercando, nelle pieghe dell’ordinamento, ogni strada che potesse portare a ribaltare la volontà legislativa non condivisa e rimettere così le cose al loro a posto, facendo assurgere l’eccezione la tutela della reintegrazione a dignità di regola; in ciò, oltretutto, andando in contrario avviso alle Sezioni Unite del 2017, secondo le quali “il comma 5 è da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cosiddetta tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale” ; ma anche questo soggettivismo all’interno dello stesso organo della nomofilachia, a ben vedere, è espressione di quella “deriva della giurisdizione verso l’instabilità del diritto liquido”, sottolineata, come si è visto, persino dal primo presidente della Cassazione .
Più in particolare, per quanto riguarda la giusta causa/giustificato motivo soggettivo, la Cassazione, in un recente orientamento -o almeno in un orientamento di alcuni collegi o relatori, vista la non uniformità che sta contraddistinguendo l’attuale fase di nomofilachia “sofferta” della Suprema Corte-, ha adottato un’interpretazione estensiva della seconda causale del comma 4, riguardante il licenziamento per una infrazione per la quale il contratto collettivo prevede una sanzione conservativa, che tende a ridurre notevolmente, forse sopprimendolo, l’ambito di applicazione del regime dell’indennità.
Per la verità, prima del 2021, la Cassazione si era mostrata rispettosa della ratio legis anche in relazione a questa seconda causale prevista dal comma 4, affermando che l’applicazione della tutela reale in tale ipotesi presuppone l’abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura e intellegibile conoscenza preventiva da parte del datore di lavoro della illegittimità del provvedimento espulsivo, derivante dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato nell’ambito della previsione della norma collettiva tra le fattispecie ritenute meritevoli della sola sanzione conservativa . Qui, dunque, a differenza dall’altra causale prevista dal comma 4, riguardante l’insussistenza del fatto, viene in rilievo una valutazione di proporzionalità, che però non è affidata al giudice ma alla autonomia collettiva mediante la tipizzazione dell’infrazione e della relativa sanzione, appunto solo conservativa. L’interpretazione estensiva viene limitata soltanto in caso di evidente inadeguatezza della clausola contrattuale per difetto dell’espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, trattandosi di contenuto carente rispetto all’intenzione .
Senonché, nel 2021, anche sulla scia degli interventi della Consulta, il vento è cambiato. A partire da un’ordinanza interlocutoria , ha preso corpo un differente orientamento che ritiene di applicare la reintegra di cui al quarto comma dell’art. 18 Stat. lav., anche se il fatto contestato non sia riconducibile agli illeciti tipizzati con sanzione conservativa dal contratto collettivo, in ciò seguendo due strade: quella dell’interpretazione analogica, qualora il giudice ritenga di pari o inferiore disvalore disciplinare la condotta contestata rispetto a quella descritta espressamente dal codice disciplinare ; oppure direttamente sussumendo il fatto nelle c.d. clausole generali o elastiche del contratto collettivo , che altro non sono, in realtà, che clausole contenenti previsioni generiche .
È pur vero che il tenore letterale del quarto comma non si riferisce espressamente ad una condotta che debba essere puntualmente descritta dal contratto collettivo, come invece si esprime l’art. 30 della l. n. 183/2010, che utilizza il termine “tipizzazioni” a proposito delle previsioni di giusta causa o di giustificato motivo da parte dell’autonomia collettiva. Al riguardo, dunque, il dato testuale appare sostanzialmente neutro, prestandosi sia alla lettura restrittiva che a quella ampliativa. Ma è proprio in tali casi che diventa decisivo il criterio interpretativo costituito dalla intenzione del legislatore. E sotto questo aspetto il suddetto orientamento della giurisprudenza non può essere condiviso perché si pone in contrasto con tali intenzioni .
L’interpretazione qui in esame, infatti, non tiene conto che la finalità fondamentale perseguita dal legislatore nel riformare l’art. 18 statutario che, come si è ampiamente visto, è stata quella di attribuire alla sanzione indennitaria la funzione di regime ordinario di tutela, ridimensionando invece la tutela reintegratoria, si da renderla speciale rispetto a quella indennitaria, mediante la sua applicazione esclusivamente a ipotesi di più evidente ingiustificatezza, secondo i criteri previsti dalle due causali individuate nel quarto comma .
Applicare, invece, la reintegrazione ogni qual volta il motivo del licenziamento sia riconducibile ad una previsione generica del contratto collettivo, come, ad es., “la negligenza nell’esecuzione del lavoro”, o la “inosservanza delle norme di legge e del presente contratto”, che sono riferibili a una vastissima gamma di inadempimenti del lavoratore, equivale ad operare un superamento della suddetta ratio normativa; in tal modo si determina, infatti, una drastica riduzione del campo di applicazione della tutela indennitaria, che da ordinaria diventa l’eccezione, in quanto risulta nei fatti improbabile rintracciare un inadempimento del lavoratore non riconducibile a previsioni così ampie e generali . Tanto è vero che tutte le sentenze della Cassazione che hanno aderito a questo orientamento, hanno poi concluso per l’applicazione del quarto comma dell’art. 18, ritenendo sempre integrata la clausola del contratto collettivo, o direttamente , o indirettamente, tramite l’analogia del pari o maggior disvalore della condotta contestata rispetto alla ipotesi punita con sanzione conservativa dal codice disciplinare .
Né vale replicare che questa disapplicazione del comma 5, dipende da una circostanza meramente contingente riguardante la tecnica di redazione dei contratti collettivi sul punto ; ciò in quanto il comma quattro dell’art. 18, correttamente interpretato alla stregua della sua ratio, intende richiamare le tipizzazioni del contratto collettivo che per loro natura saranno sempre inevitabilmente selettive, in quanto altrimenti non sarebbero tipizzazioni; e proprio per questo motivo si deve supporre che il legislatore abbia inteso far riferimento ad esse, anche se con formula testuale che, come si è detto, poteva essere più precisa, ad esempio inserendo la parola “tipizzate” dopo l’espressione “condotte punibili”, analogamente a come recita l’art. 30, l. 183/2012.
L’orientamento giurisprudenziale qui criticato oblitera anche l’altra finalità della riforma, che ha inteso porre fine all’iniqua precedente uniformità sanzionatoria del vecchio art. 18 Stat. lav., laddove non consentiva di differenziare le tutele a seconda della gravità del vizio del licenziamento; per evitare questo effetto la nuova disciplina, non solo ha riservato la tutela reintegratoria piena ai licenziamenti nulli, discriminatori, ritorsivi, orali, ecc., mentre, all’estremo opposto, ha previsto la tutela indennitaria ridotta solo per i vizi procedimentali e formali di un licenziamento giustificato, eliminando così l’omologazione maggiormente iniqua del vecchio sistema; ma, inoltre, ha introdotto due criteri per differenziare, nell’ambito dell’ingiustificatezza del licenziamento disciplinare, i casi in cui la mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo si presenti più evidente, potendo essere agevolmente valutabile come tale ex ante dal datore di lavoro. Da questo punto di vista le due causali del quarto comma condividono dunque la medesima ratio, volendo individuare una ingiustificatezza palese di cui il datore di lavoro può difficilmente non ritenersi colpevole, o comunque avvertito ex ante, senza poter invocare l’incertezza della valutazione ex post del giudice.
Qui si tocca con mano sempre il solito punto critico della giurisprudenza che “vuole rimettere le cose a posto” al di là della ratio legis: se pensa che questa volontà del legislatore sia irragionevole, o in violazione del principio di parità, dovrebbe sollevare questioni di incostituzionalità, ma non può in via interpretativa accantonarla. Infatti, la sussunzione in una previsione generale del contratto collettivo, o il ricorso all’analogia, non consentirebbe più di limitare l’applicazione della reintegrazione alle sole ipotesi in cui il datore di lavoro abbia la suddetta conoscenza preventiva certa dell’insufficienza del fatto a giustificare il licenziamento, e quindi non sarebbe più configurabile l’abuso consapevole del potere disciplinare. Evidentemente il legislatore, nella sua discrezionalità, ha pensato di privilegiare l’esigenza una tale esigenza di prevedibilità, e quindi di certezza del diritto, rispetto a una valutazione soggettiva del singolo giudice in ordine al pari o minore disvalore disciplinare del licenziamento.
Ma è rintracciabile anche una terza finalità nella causale qui in esame prevista dal quarto comma. È ragionevole ipotizzare che il legislatore abbia utilizzato una formula ellittica per evitare la sanzione più severa della reintegrazione nei casi più incerti di ingiustificatezza del licenziamento, cioè ogniqualvolta esso sia motivato da una condotta sussumibile nelle tipizzazioni di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo previste dal contratto collettivo, ma il giudice se ne discosti senza tenerne conto cfr. art. 30, comma 3, l. n. 183/2010, avendo valutato in concreto la mancanza di proporzionalità rispetto alle nozioni legali di giustificazione, come da lui interpretate. É evidente infatti che, se il contratto collettivo ha ritenuto meritevole di licenziamento una specifica condotta, è escluso che per la medesima infrazione possa esser previsto anche la sanzione conservativa. Anche in tali ipotesi non è configurabile un consapevole abuso del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, che anzi ha ritenuto di poter far affidamento, nel prendere la decisione esclusiva, nelle suddette tipizzazioni. Sicché, per questa ipotesi il legislatore, nella sua discrezionalità, pur rispettando la prevalenza della valutazione del giudice rispetto a quella dell’autonomia collettiva ai fini della giustificazione del licenziamento, ha ritenuto di escludere la sanzione più grave della reintegrazione.
Vi sono poi altre due incongruenze sistematiche che scaturiscono dall’orientamento qui criticato. La prima riguarda il giudizio di proporzionalità tra condotta contestata e il regime di tutela applicabile. Anche se la Cassazione si preoccupa di ripetere che la sussunzione nella previsione generica del contratto collettivo non trasmoderebbe nel suddetto giudizio di proporzionalità, bensì riguarderebbe esclusivamente l’attività di interpretazione da parte del giudice, pare evidente che vi sia poco da interpretare di fronte alla palese genericità di simili clausole, se non quasi esclusivamente ricondurre il fatto a tale generica previsione. In tal modo, il giudizio di proporzionalità, che è “uscito dalla porta” del comma 4, attraverso una corretta interpretazione della causale riguardante l’insussistenza del fatto depurata da tale valutazione, rientra “dalla finestra” attraverso l’interpretazione estensiva dell’altra causale.
La seconda conseguenza sistematica riguarda il giudizio sulla legittimità stessa del licenziamento, preliminare alla scelta del tipo di tutela accordabile. Occorre infatti al riguardo considerare che, in base all’art. 12, l. n. 604/66, il giudice deve esimersi da qualunque valutazione sulla proporzionalità, decretando automaticamente l’illegittimità del licenziamento, al cospetto di una “disposizione di miglior favore” prevista dal contratto collettivo, anche se la condotta contestata abbia i connotati di gravità richiesti dalla fattispecie legale della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo. Senonché l’art. 12, l. n. 604/66, è applicabile, non solo alla scelta della tutela contro il licenziamento illegittimo, ma anche alla regola di giustificazione, vista l’ampia formulazione letterale della norma, che fa riferimento indistintamente alla “materia disciplinata dalla presente legge”, in cui rientrano, appunto, le nozioni di giustificato motivo soggettivo e oggettivo previste dall’art. 3. Sul punto fino ad ora la giurisprudenza si è mostrata prudente, ritenendo vincolante la previsione del contratto collettivo solo in presenza di illeciti tipizzati collegati a sanzioni conservative . Ma, una volta adottata l’interpretazione del quarto comma secondo cui basta una indicazione generica del contratto collettivo per applicare la reintegrazione, può diventare agevole estendere questo automatismo anche alla regola di giustificazione, considerato il tenore letterale dell’art. 12, che, analogamente al quarto comma dell’art. 18 Stat. lav., egualmente fa generico riferimento alle “disposizioni” dei contratti collettivi senza alcun cenno alle tipizzazioni. Ciò comporterebbe che le clausole generiche che prevedano sanzioni conservative sarebbero suscettibili di diventare tutte “condizioni più favorevoli” rispetto alle fattispecie legali di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo, con conseguente illegittimità del licenziamento prescindendo totalmente dalla gravità della condotta, considerato che ben difficilmente potrebbero essere configurabili casi in cui l’inadempimento anche notevole, o più che notevole, del lavoratore, non si presti ad essere riconducibile a qualcuna delle anzidette generiche previsioni del codice disciplinare collegate a una sanzione conservativa.
Le conseguenze poco ragionevoli che possono derivare dall’orientamento giurisprudenziale qui criticato emergono evidenti se si prende in considerazione una delle previsioni generali più comuni rinvenibili nei codici disciplinari, riguardante il lavoratore che “esegua negligentemente il lavoro affidatogli” , ove il contratto collettivo dovesse prevedere per tale generica previsione la sanzione conservativa. Si veda, ad esempio, in caso in cui è stata applicata la reintegrazione in relazione ad un licenziamento di un’addetta alle vendite, nel periodo prenatalizio, che si era rivolta in modo gravemente scortese, con espressione volgare, ad un cliente che le chiedeva di un adempimento proprio del centro servizi cui era addetta e che, irritato dall’insolenza, non aveva completato l’acquisto . Nella fattispecie, il contratto collettivo del commercio applicato prevede tra le ipotesi sanzionabili con il licenziamento proprio la grave violazione degli obblighi di cortesia nei confronti del cliente. La Suprema Corte non solo non ha tenuto conto di tale tipizzazione, ritenendo il licenziamento sproporzionato, considerato l’intenso afflusso di clientela nel periodo natalizio e la assenza di precedenti disciplinari; ma, inoltre, ha applicato anche la sanzione della reintegrazione, in quanto ha operato la sussunzione nella previsione del codice disciplinare del lavoratore “che esegua con negligenza il lavoro affidatogli”, punita in via conservativa con la multa.
Anche con specifico riferimento all’inadempimento dell’obbligo di diligenza, l’interpretazione qui criticata potrebbe portare a ritenere ingiustificato un licenziamento -al quale, per di più, si applicherebbe anche la reintegrazione-, nel caso, ad esempio, di una gravissima negligenza del meccanico che ripari maldestramente i freni di un autobus di linea, o un guasto ad un impianto di un aereo, che causi o possa causare incidenti mortali, se non vere e proprie catastrofi stradali o aeree. La sussunzione in previsioni generali di questo tipo produce simili paradossi, proprio a causa della genericità della clausola che non consente più di differenziare la sanzione a seconda della gravità dell’infrazione. Nell’esempio preso in esame si tratta sempre dell’inadempimento del medesimo obbligo primario di diligenza, ai sensi dell’art. 2104, comma 1, cod. civ.; ma tale inadempimento, come è ovvio, può assumere gravità differenti. Sicché non sembra molto ragionevole negare che la negligenza nel riparare i freni di un autobus di linea sia più grave di quella dovuta per lucidare il cofano di una autovettura, anche perché è l’art. 2104 cod. civ che fa riferimento alla natura della prestazione per valutare la diligenza “richiesta”. Applicare addirittura a tale licenziamento la reintegrazione è ancora meno ragionevole, giacché viene da chiedersi con quale fiducia il datore di lavoro affiderà nel senso di “fare affidamento” a quel lavoratore così reintegrato, un altro lavoro di riparazione dei freni di un autobus in presenza di un pregresso inadempimento che è tale da menomare oggettivamente la fiducia nell’esattezza dei successivi adempimenti art. 1564 cod. civ.
Paradossale anche il caso deciso da un’altra sentenza della Cassazione che ha seguito questa interpretazione estensiva dell’art. 18, comma, di un dipendente della Fiat Group con mansioni di magazziniere, fermato dai carabinieri mentre stava rientrando in azienda dalla pausa pranzo perché colto con 25 grammi di hascisc a fini di spaccio nascosti nella tuta di lavoro e che era stato licenziato per questo motivo. La Cassazione ha ritenuto ingiustificato il licenziamento in quanto l’episodio poteva essere considerato di gravità non superiore a quello del rinvenimento del dipendente trovato in stato di manifesta ubriachezza durante l’orario di lavoro, per il quale il contratto collettivo prevede la sanzione conservativa . In quest’ultimo caso la sanzione conservativa era tipizzata ma è stata l’estensione analogica di tale tipizzazione ad una condotta differente ad essere del tutto discrezionale, opinabile, e quindi non prevedibile dal datore di lavoro.
Per quanto riguarda l’altra causale del comma 4, riguardante l’insussistenza del fatto contestato, inizialmente si erano affacciate tesi sostanzialmente abrogartici del comma 5, sostenendo che si dovesse applicare la reintegra di cui al comma 4, anche a un licenziamento basato su un fatto-inadempimento sussistente ma non notevole, quindi recuperando la non proporzionalità dell’illecito alla sanzione reintegratoria . Queste sentenze sono state tuttavia superate da un orientamento, rispettoso della ratio e della sistematica dell’art. 18, che ha applicato la sola tutela indennitaria nel caso di licenziamento intimato per il fatto sussistente ma non sufficiente , con la sola ragionevole e condivisibile variante dell’equiparazione del fatto lecito con quello inesistente . Ma anche a tal proposito non sono mancate pronunce che hanno tentato di recuperare alla tutela reintegratoria a risarcimento limitato il giudizio di proporzionalità seguendo l’altra strada della distinzione tra una mancanza di proporzionalità in astratto, a cui verrebbe applicata la reintegrazione, e mancanza di proporzionalità in concreto, destinataria invece della tutela indennitaria .
Anche in relazione al licenziamento ingiustificato per motivo oggettivo stanno emergendo orientamenti che vanno nella direzione della riespansione della tutela della reintegrazione, tendenti ad amplificare gli effetti delle due sentenze della Consulta. Qualche giudice di merito , ma anche due sentenze della Cassazione , hanno infatti sancito l’applicabilità del quarto comma dell’art. 18 Stat. lav., pur in presenza dell’accertata soppressione del posto ma di mancato raggiungimento della prova dell’impossibilità del repêchage, sostenendo che questa soluzione avrebbe avuto l’avallo del giudice delle leggi.
Queste pronunce non sembra tengano nel dovuto conto il mutato scenario di riferimento a seguito della reintegrazione obbligata per insussistenza semplice, conseguente al duplice ritaglio normativo della Consulta, che consiglia un innesto non automatico dei precedenti orientamenti , essendo venuti meno ormai i due presupposti funzionali a delimitare la tutela reintegratoria, e cioè la manifesta insussistenza e la facoltatività della reintegra, per cui quell’orientamento non dovrebbe essere più automaticamente riproposto in una situazione normativa completamente modificata, se ovviamente ancora si vuole effettuare il vaglio giudiziale con lealtà e fedeltà alla ratio della riforma del 2012 .
Come è noto, era accaduto che, a partire dal 2018, la Suprema Corte aveva respinto l’interpretazione più estensiva, che si era affacciata tra i giudici merito , che fosse sufficiente la prova della soppressione del posto anche in assenza di quella dell’impossibilità del repêchage, affermando che invece la reintegrazione era applicabile anche a fronte della manifesta insussistenza di uno solo dei due requisiti . Ma, nonostante ciò, il suddetto orientamento restava comunque coerente e rispettoso della volontà del legislatore, correttamente individuata nella intensione di riservare, soprattutto per il licenziamento per motivi oggettivi, la reintegrazione solo alle “ipotesi residuali che fungono da eccezioni” ; quindi aveva preso in seria considerazione, sia il filtro della facoltatività della reintegra da parte del giudice, elaborando il criterio dell’eccessiva onerosità sopravvenuta – rigettando, finché non è intervenuta la Corte costituzionale, le interpretazioni creative contrarie alla lettera della norma che leggevano il “può” come “deve “ reintegrare-, sia quello della “manifesta” insussistenza, avendo ripetutamente affermato che tale aggettivo significasse “una particolare evidenza” , ovvero una “chiara evidente e facilmente verificabile” insussistenza del fatto, tanto da far emergere, ad esempio, la “chiara pretestuosità del recesso” ; e ciò sull’unico piano che può rilevare in un processo e cioè su quello probatorio; pertanto, è stato escluso che ricorresse tale carattere, ad esempio, a fronte di una prova “meramente insufficiente” , per ritenerlo invece configurabile in difetto del nesso di causalità, come nel caso del licenziamento motivato dalla cessazione di appalto senza collegamento con l’attività svolta dal lavoratore licenziato , oppure nella fattispecie di soppressione del posto indebitamente assegnato al lavoratore poi licenziato .
Sicché, proprio per continuare a rimanere coerenti con la suddetta opzione interpretativa di fondo correntemente adottata dalla Cassazione prima della riforma della Consulta, appare indispensabile espungere l’elemento del repêchage dalla fattispecie rimediale della reintegrazione in quanto, altrimenti, sparirebbe sostanzialmente lo spazio della tutela indennitaria per quanto riguarda qualsiasi licenziamento per motivo oggettivo basato sulla soppressine del posto, considerato che l’insussistenza semplice non è più idonea a selezionare le ipotesi di più grave ingiustificatezza. Come condivisibilmente affermato da G. Amoroso, “andrà probabilmente ridefinita la nozione di insussistenza del fatto, non più necessariamente manifesta,” per cui tale fattispecie “potrà recuperare confini maggiormente circoscritti alla materialità del fatto stesso, non integrata dall’eventuale mancato assolvimento della prova del repêchage, come in precedenza ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità. Il mancato assolvimento, da parte del datore di lavoro, della prova della collocabilità del lavoratore eccedentario in altre mansioni condiziona sì la valutazione di legittimità, o no, del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ma non attiene alla sussistenza/ insussistenza del fatto” .
L’anzidetta soluzione interpretativa non è preclusa dalle due sentenze della Corte costituzionale; anzi, nella pronuncia n. 125/22, può trarsi uno spunto in tal senso laddove si sostiene che “nell’ambito del licenziamento economico, il richiamo all’insussistenza del fatto vale a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi” punto 8. Da questa affermazione della Consulta si ricava dunque che deve pur continuare ad essere configurabile un vizio “più grave” , che funga da criterio selettivo per quanto riguarda la scelta tra i due regimi di tutela. Altrimenti, se l’insussistenza del fatto si interpretasse come riferita a tutti e due gli elementi costitutivi della fattispecie della giustificazione di cui all’art. 3, l. n. 604/66, non vi sarebbe più la possibilità di differenziare la tutela reintegratoria da quella indennitaria , con sostanziale abrogazione di quest’ultima. Ed una volta escluso che detto criterio selettivo consista nel carattere “manifesto” della insussistenza, la maggiore “gravità” del vizio non può che essere ravvisata esclusivamente nella insussistenza, anche non “manifesta”, della soppressione del posto, mentre la “minore” gravità, meritevole della tutela indennitaria, è configurabile nel caso in cui il datore di lavoro dimostri che il posto sia stato effettivamente soppresso, ma poi non riesca a fornire la prova dell’impossibilità del repêchage; solo in questo modo si lascia uno spazio per le “altre ipotesi” a cui fa riferimento il comma 7 per l’applicazione della tutela indennitaria, almeno in riferimento a questa tipologia di motivo oggettivo.
Questa conclusione trova conferma anche nell’altro passo della sentenza della Corte costituzionale, in cui viene specificato che tale vizio più grave “attiene al nucleo stesso e alle connotazioni salienti della scelta imprenditoriale della motivazione confluita nell’atto di recesso”. È infatti plausibile ritenere che ciò che confluisce nell’atto di recesso altro non sia che la motivazione che di tale atto ne fornisce il datore di lavoro; e questa motivazione tipicamente riguarda esclusivamente la modifica organizzativa e il nesso di causalità con la soppressione del posto .
Se, dunque, il “vizio più grave”, ai fini della diversificazione dei rimedi, va individuato nella insussistenza della soppressione del posto, ciò significa, a contrario, che ove il datore di lavoro riesca invece a fornire la prova di tale soppressione, troverà applicazione la tutela indennitaria, poiché il licenziamento risulterà sì ingiustificato, ma “solo” per la violazione dell’obbligo del repêchage. In tal caso, infatti, il datore di lavoro dimostra pur sempre che vi è stata la modifica organizzativa ed il nesso di causalità che ha portato alla effettiva cancellazione del posto a cui era adibito il lavoratore; mentre, non sarebbe affatto coerente con la finalità della riforma del 2012, se questa situazione venisse equiparata, sul piano sanzionatorio, a quella in cui il posto del lavoratore licenziato continui ad esistere ad organizzazione immutata e che quindi si sia verificata l’ipotesi più grave di ingiustificatezza del motivo oggettivo, consistente nella sostituzione del lavoratore con altro lavoratore , perciò meritevole del rimedio ripristinatorio della reintegrazione.
Questa conclusione non solo appare la più rispettosa della ratio della norma, a seguito del doppio ritaglio ablativo operato dalla Consulta, ma trova anche un riscontro nel tenore testuale del comma 7, dell’art. 18 Stat. lav., in quanto non si spiegherebbe altrimenti la differenza letterale tra il presupposto per l’applicazione della reintegrazione, che è individuato nella insussistenza “del fatto posto a base del licenziamento”, e le “altre ipotesi”, che dunque devono essere diverse dalla prima, in cui invece viene accertato che non ricorrono “gli estremi” del giustificato motivo , a fronte delle quali opera il regime dell’indennità.
Ciò anche perché, “il fatto posto a base del licenziamento”, quale presupposto della reintegrazione, come si è visto, è quello che il datore pone appunto quale motivazione del suo atto negoziale di recesso, che consiste nella soppressione del posto, in quanto riguarda la modifica organizzativa da lui attuata . A tale modifica rimane estraneo l’aspetto del repêchage del lavoratore, la cui impossibilità rientra, al pari della soppressione del suo posto, nella più ampia fattispecie delle “ragioni” di cui all’art. 3, della legge n. 604/66, in virtù della ben nota interpretazione giurisprudenziale del licenziamento come extrema ratio. Sicché, nel sistema diversificato dei rimedi introdotto dal nuovo art. 18 Stat. lav., le “ragioni”, che costituiscono il presupposto di legittimità del licenziamento, risultano essere un contenitore più ampio della nozione di “fatto posto a base” dello stesso , con la conseguenza che si applica il rimedio del comma 4 solo se le “ragioni” mancanti consistono nella insussistenza della soppressione del posto, mentre se sussiste la “ragione” della soppressione del posto ma non quella dell’impossibilità del ripescaggio, trova spazio la tutela indennitaria.
Quella ora tratteggiata appare una sistemazione equilibrata e ragionevole rispetto al nuovo scenario derivante dagli interventi della Consulta, anche alla luce del fatto che, nel caso in cui il datore di lavoro abbia comunque fornito la prova della soppressione del posto, può risultare “perfino – in taluni casi – giuridicamente impossibile la restituzione del posto al lavoratore” .
Inoltre, in una ottica di bilanciamento, appare ragionevole, e coerente con la finalità della riforma dell’art. 18 Stat. lav., nonché con l’evoluzione della disciplina rimediale contenuta nell’art. 3, comma 1, d. lgs. n. 23/2015, applicare la sanzione indennitaria nel caso in cui il datore di lavoro, dopo aver dimostrato l’effettiva soppressione delle mansioni del lavoratore licenziato, quale fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non sia riuscito ad assolvere l’onere della prova dell’impossibilità del repêchage, tenuto conto della notevole incertezza che ormai caratterizza il controllo giudiziale su questo fatto negativo, che alle volte diventa quasi “diabolica”, in considerazione dei continui arresti della giurisprudenza tendenti a renderla sempre più difficoltosa .
Il vento della controriforma non ha risparmiato neppure il comma 6, dell’art.18 Stat. lav., mediante interpretazioni che tendono a svuotarne i contenuti, sostenendo che le violazioni più gravi della procedura dell’art. 7 Stat. lav., come la genericità o la mancanza di contestazione dell’addebito, in realtà non integrino una violazione procedimentale ma una ingiustificatezza a cui applicare il comma 4 ; tesi, queste, sostenute alle volte con espedienti linguistici creativi, come quello che trasforma la frase “l’insussistenza del fatto contestato” di cui al comma 4, in “l’insussistenza della contestazione del fatto”, ma che rimangono contrarie al tenore letterale della norma che prevede che il giudice distingua a seconda della minore o maggiore gravità della violazione solo ai fini della determinazione dell’indennità tra il minimo e il massimo.
In effetti, il comma 6 dell’art.18, che può ritenersi quasi sorta di diposizione “simbolo” della riforma del 2012, perché intende mettere fine a una delle più evidenti incongruità del precedente apparato rimediale uniforme, per cui poteva accadere che ricevesse la medesima massima tutela della reintegrazione del lavoratore colpito dal più grave dei licenziamenti vietati, anche il lavoratore il cui licenziamento era invece pienamente giustificato, magari da un illecito gravissimo, ma presentava un vizio procedurale. Proprio per evitare questo effetto iniquo, se non forse incostituzionale, nel testo della norma non c’è traccia di distinzione delle violazioni formali in base alla loro gravità -con l’unica eccezione testuale ed ovvia del licenziamento intimato senza forma scritta-, prevedendo per tutte la tutela indennitaria ridotta e lasciando comunque al lavoratore la scelta se chiedere anche l’accertamento della ingiustificatezza del licenziamento.
Ma anche qui è stata ignorata la suddetta ratio legis da parte di quegli orientamenti giurisprudenziali che non hanno ritenuto “giusto” applicare il rimedio della reintegrazione ai vizi procedimentali valutati dal singolo giudice come “più gravi” in assenza di una distinzione in tal senso da parte della norma.
Sempre in relazione al comma 6, si è reso necessario addirittura l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione per sancire ciò che sembrava evidente, e cioè che, allorquando la tardività notevole e ingiustificata della contestazione disciplinare, oltre ad integrare una violazione procedimentale dell’art. 7 Stat. lav., con conseguente applicazione del comma 6, dell’art. 18, incide anche sulla giustificazione stessa del licenziamento – avendo il datore evidentemente ritenuto lui stesso, con il suo comportamento tardivo, il fatto non così grave da meritare il licenziamento, specie in assenza della sospensione cautelare del lavoratore – si applica l’indennità del comma 5 e non la reintegra del comma 4, “per la semplice ragione” che quest’ultima tutela presuppone l’insussistenza del fatto contestato. Ma neanche le Sezioni unite hanno fatto demordere quei giudici nostalgici del vecchio sistema che, infatti, in consapevole contrasto, hanno continuato ad applicare la reintegra in caso di tardività, equiparando la volontà di non perseguire il fatto da parte del datore con l’insussistenza del fatto stesso .
Parte seconda
Forme e tecniche di tutela nella prospettiva applicativa.
Sezione I – La forma di tutela satisfattiva dei crediti pecuniari.
1. Tecniche di tutela sostanziali e processuali.
Qualunque discorso sulla effettività delle tecniche di tutela del lavoratore non può prescindere dalla fondamentale distinzione tra crediti pecuniari e crediti aventi ad oggetto una condotta attiva od omissiva del datore di lavoro.
Solo per i primi, infatti, l’ordinamento predispone una tutela specifica satisfattiva completa, mediante la sentenza di condanna al pagamento di somme e la tecnica esecutiva dell’espropriazione forzata che dovrebbe consentire di ottenere il bene denaro dedotto in obbligazione .
A proposito dei crediti pecuniari si può parlare di reintegrazione dei diritti primari, anziché di risarcimento specifico o per equivalente dell’interesse leso dall’inadempimento del datore di lavoro; trattandosi di tutela di interessi strettamente economici del lavoratore, il risarcimento tende infatti a confondersi con l’adempimento, sia pure tardivo .
Arricchiscono il quadro della complessiva elevata protezione dei crediti di lavoro una serie di disposizioni processuali, amministrative e sostanziali.
Vi è innanzitutto la tutela che dovrebbe consistere nella celerità del processo del lavoro di cognizione, che in alcune sedi è anche effettiva. Nell’ambito del processo, sono annoverabili ulteriori tutele che determinano una serie di differenze di trattamento tra le due parti in favore del lavoratore
Per il resto, in termini di effettività processuale, rimane comunque abbastanza inspiegabile la discrasia di un sistema che non prevede, a seguito di un processo di cognizione “speciale” per l’accertamento dei diritti del lavoratore e la condanna del datore di lavoro, un analogo rito speciale per l’esecuzione della sentenza in materia di lavoro, che invece avviene secondo le norme del processo civile, lasciando così l’eventuale diritto riconosciuto al lavoratore dal giudice della cognizione in balìa dei ben noti problemi di inefficienza della espropriazione forzata; di qui la diffusa vulgata secondo cui è più difficile alle volte eseguire una sentenza favorevole che ottenerla.
Anche le ulteriori tutele, che riguardano il caso di insolvenza e di fallimento del datore di lavoro, presentano il medesimo limite in termini di effettività a causa delle lungaggini giudiziarie delle procedure concorsuali e fallimentari.
Altre importanti tecniche per accrescere le possibilità di effettiva soddisfazione dei crediti del lavoratore sono costituite dall’imposizione dell’obbligazione solidale del relativo adempimento da parte dei soggetti in aggiunta, ovviamente, al datore di lavoro. Anche qui, come nella disciplina dei privilegi, viene quindi coinvolto il patrimonio di chi non ha contratto le obbligazioni con il lavoratore, sempre al fine di aumentare la garanzia satisfattiva dei suddetti crediti.
Attinente anch’essa alla protezione dei crediti del lavoratore nel caso di ritardo nell’adempimento da parte del datore di lavoro, è la tecnica del cumulo della rivalutazione monetaria e degli interessi. Il rimedio così apprestato per il lavoratore era notevole nel periodo in cui la giurisprudenza costante ne aveva affermato il cumulo integrale. Questa giurisprudenza un po’ bizzarra era ritenuta diritto vivente dalla Consulta sulla base di uno speciale regime di favore per i lavoratori . Nella realtà, se si tiene conto che il danno prodotto dalla diminuzione del potere di acquisto della retribuzione ha come necessario presupposto non il consumo, ma l’investimento del reddito che sarebbe stato percepito e risparmiato dal lavoratore, si poteva qualificare il rimedio come una sanzione pecuniaria di tipo particolare, assimilabile a una sorta di pena privata giudiziaria contro l’ingiustificato arricchimento, commisurata al danno che sarebbe stato subito dal lavoratore nel caso in cui egli avesse voluto investire la somma non corrisposta dal datore di lavoro . In questa situazione si era andati avanti per oltre vent’anni. Poi è intervenuto il legislatore il quale, per le retribuzioni oltre che per le pensioni maturate dopo il 31 dicembre 1994, aveva escluso il cumulo integrale di rivalutazione monetaria e interessi art. 22, comma 36, L. 23 dicembre 1994, n. 724. Ma, con un tipico andirivieni di tutele, è di nuovo intervenuta la Corte costituzionale, che ha dichiarato parzialmente incostituzionale tale disciplina, sulla base del presupposto che sia costituzionalmente obbligata una sorte di “supertutela” dei lavoratori privati per disincentivare l’inadempimento, per poi però estendere il principio del cumulo anche ai crediti risarcitori, con non molta coerenza con il fondamento della sentenza che si basava sull’art. 36 Cost. .
2. La diffida accertativa e la disposizione del personale ispettivo immediatamente esecutiva.
Una tecnica in un certo senso polifunzionale che tende alla effettività della tutela satisfattiva dei crediti “patrimoniali” dei lavoratori è quella della diffida accertativa ai sensi dell’art. 12, D.L.vo 23 aprile 2004, n. 124, in quanto essa è sia di natura amministrativa ma anche giurisdizionale e fortemente promozionale della conciliazione stragiudiziale . Si tratta infatti di un titolo esecutivo di formazione amministrativa che esaurisce i suoi effetti nel rapporto fra datore di lavoro e lavoratore, posto che quest’ultimo è libero o no di utilizzarlo.
Lo strumento appare particolarmente efficace poiché, sotto la minaccia della formazione del titolo esecutivo di fonte amministrativa, il datore di lavoro è indotto a conciliare in quanto, in mancanza di accordo, o rigettato o non presentato dal datore di lavoro entro trenta giorni il ricorso in via amministrativa, il lavoratore è posto in condizione di realizzare esecutivamente gli ipotetici crediti risultanti da un atto amministrativo, senza necessità di attendere l’accertamento giurisdizionale. Il datore di lavoro ha diritto di richiedere al giudice l’accertamento negativo, ma nelle more resta esposto all’esecuzione forzata. Il che solleva qualche dubbio di costituzionalità in relazione all’art. 3 e 24, Cost., poiché non appare del tutto ragionevole sia l’omessa previsione di un potere del giudice di sospendere tale efficacia esecutiva, sia comunque la possibilità per il lavoratore di realizzare esecutivamente gli ipotetici crediti senza necessità di attendere l’accertamento giudiziale negativo solo sulla base di un atto amministrativo redatto da un funzionario, che sostanzialmente è un progetto di sentenza che però è privo di quell’alto grado di certezza che solo potrebbe giustificare la formazione in via amministrativa di un titolo esecutivo a favore di un privato, giacché la disposizione in esame riguarda indistintamente tutti i crediti pecuniari del lavoratore, compresi quelli la cui fattispecie costitutiva sia estremamente complessa, involgendo difficili accertamenti di fatto e delicate questioni di diritto anche sulle applicazioni delle clausole generali ad es. la qualificazione del rapporto, interposizione illecita, discriminazioni, qualifica superiore, termine illegittimo.
Questi problemi non sono stati ovviamente risolti dalla modifica dell’art. 24, D.L.vo n. 124/2004, che ha previsto la sospensione dell’esecutività della diffida fino al decorso del termine di trenta giorni per presentare ricorso in via amministrativa o dopo il suo rigetto. L’unico modo per eliminarli sarebbe quello di assegnare a tale accertamento non l’efficacia esecutiva, ma la qualità di titolo idoneo a fondare un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo con i relativi controlli giurisdizionali.
Va altresì rilevato che i suddetti problemi si potrebbero riproporre, forse in misura addirittura più accentuata, anche in relazione alla nuova disciplina dell’atto di disposizione ispettiva, introdotto dall’art. 12 bis, L. 11 settembre 2020, n. 120, che ha riscritto l’art. 14, D.L.vo n. 124/2004, ove dovesse prevalere un’interpretazione estensiva dell’infelice norma a precetto generico ivi introdotta, secondo cui il personale ispettivo può adottare un provvedimento di disposizione “immediatamente esecutivo”, in “tutti i casi di irregolarità in materia di lavoro e legislazione sociale che non siano assoggettate a sanzioni penali o amministrative”. La vaghezza della locuzione “irregolarità” potrebbe determinare una sovrapposizione con la diffida accertativa ; e comunque anche l’atto di disposizione è immediatamente esecutivo, di cui non è prevista la sospensione neppure con il ricorso amministrativo, ma con l’ulteriore aggravante che la mancata ottemperanza determina l’applicazione di una sanzione amministrativa, in aggiunta a quelle, appunto immediatamente esecutive, della disposizione dell’ispettore. Tale provvedimento potrebbe spingersi a riconoscere diritti di credito ai singoli lavoratori, ove il singolo ispettore dovesse intendere il termine “irregolarità” comprensivo anche di quelli che a suo avviso derivino da inadempimenti del datore di lavoro agli obblighi previsti dal contratto collettivo nei confronti del singolo lavoratore, come ad esempio, il riconoscimento di un livello di inquadramento superiore.
3. Il problema della temporanea imprescrittibilità.
Ai fini delle suddette forme specifiche di tutela dei crediti pecuniari del lavoratore, assume particolare rilevanza, in quanto garanzia conservativa e tutela rafforzata dei crediti retributivi a fronte dell’inadempimento datoriale, la soluzione del problema della sospensione del decorso della prescrizione, o meglio, della temporanea imprescrittibilità , dei crediti retributivi nei rapporti di lavoro non assistiti dalla “stabilità”.
A seguito della riduzione dell’ambito di applicazione della tutela della reintegrazione, operata dalla L. n. 92/2012 e dal D.L.vo n. 23/2015, ed in attesa del pronunciamento della Cassazione, o forse della Corte costituzionale o, preferibilmente, del legislatore, si sono registrate differenti opinioni in dottrina e giurisprudenza tra chi intende ritornare al regime “assolutista” e “creativo” di Corte cost. n. 63/1966, di sospensione del decorso della prescrizione per tutti i lavoratori e chi ritiene invece che ancora oggi la prescrizione continui a decorrere come per il passato per i rapporti di lavoro con datori di lavoro che abbiano i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, commi 8 e 9, Stat. lav. .
Si tratta di un problema che deriva da quella sorta di vizio di origine che, come si è visto, ha caratterizzato lo sviluppo delle tutele nel diritto del lavoro, costituito dalle “lacune di collisione” dovute alla stratificazione di normative non coordinate tra loro, per cui prevale la tentazione di seguire la strada, in un certo senso più semplice, dell’automatica sovrapposizione della precedente tutela al nuovo contesto normativo.
E così, posta la premessa maggiore, secondo cui il decorso della prescrizione viene sospeso, secondo i dettami delle Corte costituzionale e della Cassazione a Sezioni Unite , solo nei rapporti non assistiti da “adeguata stabilità”, e posto altresì che nel periodo ante 2012, quando si è formato questo orientamento giurisprudenziale, l’“adeguata stabilità” era assicurata dal vecchio art. 18 che prevedeva la reintegrazione per qualsiasi motivo di illegittimità del licenziamento, dal meno grave al più grave, e posto altresì che i nuovi regimi di tutela hanno eliminato questa uniformità sanzionatoria, ecco che la sintesi, facile e automatica che viene prospettata, è il ritorno come d’incanto a sessant’anni fa, al regime introdotto dalla vecchia Corte cost. del 1966, non esistendo più l’adeguata stabilità per nessun rapporto di lavoro, come allora concepita.
Ritornare acriticamente al regime che fu introdotto, mezzo secolo fa, da una sentenza creativa Corte cost. n. 63/1966, non tiene conto appunto del contesto normativo nel cui ambito si pronunciò la Consulta, in cui vigeva ancora il regime di libera recedibilità, poiché la L. n. 604/1966, sarebbe stata promulgata un mese dopo, il 15 luglio. Questo automatismo trascura altresì l’altro contesto normativo in cui si collocava la successiva sentenza “adeguatrice” delle Sezioni Unite della Cassazione 12 aprile 1976, n. 1268 che aveva di fronte a sé solo due regimi sanzionatori: da un lato, il quasi nulla, o molto poco, previsto dal blandissimo art. 8 della L. n. 604/1966; dall’altro lato, il “tutto”, quello della massima uniforme sanzione della reintegrazione. Pare evidente che la scelta non poteva che ricadere su questa unica seconda opzione. Ma la stessa sentenza della Sezioni Unite precisò che “oggi” quella stabilità era assicurata da quel sistema lasciando aperta quindi la possibilità di nuove valutazioni a seconda del mutamento del quadro normativo.
Sicché è indispensabile un ripensamento di tale disciplina, anche alla luce delle quattro sentenze della Consulta che hanno controriformato il nuovo regime sanzionatorio, evitando di applicare meccanicisticamente vecchi schemi, che oltretutto appartengono ad una sentenza della Consulta, la n. 63/1966, che aveva determinato una vera e propria inventio sotto il profilo dell’ardita equiparazione tra estinzione negoziale del diritto ed estinzione inerziale del diritto, che invece non si identifica affatto con la prima, in quanto risulta dalla sommatoria di due elementi estranei al negozio abdicativo, quali il non esercizio del diritto e la situazione psicologica di metus .
Si dovrà quindi ripensare la teoria del “metus”, basata su di una situazione psicologica del lavoratore social-tipo di oltre mezzo secolo fa, tenuto conto che anche i nuovi regimi di tutela sono ancora in grado di dispensare, oltretutto in modo generalizzato, la tutela reintegratoria identica a quella del passato proprio in quelle situazioni ritorsive che maggiormente dovrebbero alimentare il suddetto “metus”.
Inoltre, ai rapporti di lavoro a cui è applicabile l’art. 18 Stat. lav. e l’art. 3, D.L.vo n. 23/2015, rimane pur sempre la previsione della tutela reintegratoria, anche se a risarcimento limitato, per i licenziamenti disciplinari palesemente ingiustificati, anch’essi possibile strumento, sia pure indiretto, di ritorsività.
Medesime conclusioni possono valere per il licenziamento per motivo oggettivo a cui è applicabile l’art. 18, comma 7, considerato che ormai, come si è visto, a seguito del duplice intervento demolitorio della Corta costituzionale, con la soppressione delle parole “può” sentenza n. 59/2021 e “manifesta” sentenza n. 125/2022, è stata sostanzialmente ripristinata la reintegrazione generalizzata in relazione alla modalità-motivazione tipica, classica e più diffusa di tale licenziamento, quella per soppressione del posto, essendo sufficiente che il datore di lavoro non riesca a fornire la prova anche di uno solo dei due elementi costituiti dalla soppressione del posto e dall’impossibilità del repêchage.
Resta da valutare a tal fine la rilevanza dell’esclusione almeno per ora della tutela reintegratoria per i licenziamenti ingiustificati, sia oggettivi che soggettivi, a cui si applica l’art. 3, comma 1, D.L.vo n. 23/2015. Ma anche qui occorrerà operare uno sforzo di rivisitazione della questione del “metus” alla luce della sentenza della Corte cost. n. 194/2018, in quanto l’indennità da sei a trentasei mensilità di retribuzione ad alta discrezionalità giudiziaria è in grado di “rivaleggiare”, ai fini della situazione psicologica del lavoratore, con la reintegrazione a risarcimento limitato con indennità sostitutiva, considerato che quest’ultima si traduce quasi sempre in una negoziazione economica . Del resto, la stessa Corte cost. 194/2018 ha valorizzato proprio l’efficacia dissuasiva della sanzione da lei introdotta, anche e soprattutto quando questa abbia natura indennitaria.
È opportuno, in ogni caso, prendere atto che il grado di stabilità del rapporto di lavoro idoneo a paralizzare il decorso della prescrizione consiste in un giudizio squisitamente politico e non tecnico-interpretativo da non affidare al giudice ordinario o alla Corte costituzionale, ma alla volontà parlamentare. Solo in quella sede si potranno prendere in considerazione proposte che superino o adeguino il suddetto paradigma del metus, ad esempio tenendo conto che oggi, come è stato sostenuto, la maggiore debolezza del lavoratore è forse riscontrabile più che altro sul versante della discontinuità dell’occupazione .
Sezione II – Tecniche di tutela dei diritti del lavoratore aventi ad oggetto comportamenti infungibili del datore di lavoro.
1. L’incoercibilità degli obblighi infungibili.
Le difficoltà di una tutela effettiva aumentano per i diritti del lavoratore aventi ad oggetto comportamenti infungibili del datore di lavoro, quali, ad esempio, l’adibizione a mansioni a cui il lavoratore ha diritto o l’effettiva possibilità di esecuzione della prestazione, la riammissione nel luogo di lavoro o all’unità produttiva, la cessazione di condotte vessatorie o discriminatorie. Qui, infatti, la tutela specifica satisfattoria del preciso interesse del creditore incontra l’ostacolo della incoercibilità di tali obblighi .
Nonostante quanto si è visto a proposito delle tendenze ad ampliare il principio di effettività, declinandolo nella prospettiva del “rimedio effettivo”, resta fermo tuttavia che, di fronte agli obblighi di fare o non fare infungibili, il nostro ordinamento non predispone i mezzi necessari alla possibile soddisfazione del preciso interesse protetto dalla legge sostanziale attraverso una tutela specifica ripristinatoria o satisfattoria.
In questi casi, salve le disposizioni speciali, al creditore non resta che la tutela risarcitoria per equivalente.
E così anche la tecnica dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare, contemplata dall’art. 2931 c.c., con rinvio agli artt. 612 e ss., c.c., realizza più tutele specifiche restitutoria, satisfattiva dei crediti, risarcitoria in forma specifica , ma sempre con il limite della surrogabilità della prestazione, che deve poter essere eseguita da terzi designati dal giudice, a spese dell’obbligato o che per sua natura possa essere attuata indifferentemente per mezzo dell’attività sostitutiva di qualunque altro soggetto.
Del resto, non sembra che la nostra Costituzione imponga rigidamente la tutela specifica, né che il principio di effettività non possa essere realizzato anche mediante la tutela risarcitoria per equivalente , essendo lasciata l’introduzione di una tutela specifica di volta in volta alla discrezionalità del legislatore ordinario. Questa scelta si fonda sul rispetto per la posizione personale del debitore, di cui del resto beneficia lo stesso lavoratore che a sua volta non può essere costretto alla esecuzione della prestazione lavorativa.
Sono risultati inidonei anche i tentativi di superare in via interpretativa i suddetti limiti dell’ordinamento affermando l’esistenza di una coercizione indiretta penale generalizzata . Per quanto riguarda l’art. 650 c., si è infatti replicato che la disposizione riguarda la inosservanza di provvedimenti amministrativi ; mentre, in relazione all’art. 388, comma 1, c., la norma punisce solo gli atti simulati o fraudolenti diretti a vanificare l’esecuzione forzata, con esclusione, dunque, degli ordini insuscettibili di coazione specifica .
Proprio sotto quest’ultimo aspetto emerge una differenza importante con il rapporto di lavoro pubblico. Non si tratta di una sorta di fungibilità in re ipsa di ogni prestazione della pubblica amministrazione in quanto soggetto esercente attività-funzione a differenza dell’imprenditore privato , poiché se una prestazione è infungibile tale rimane anche se il soggetto che deve attuarla è una PA . Si tratta invece della ammissibilità del ricorso al giudice amministrativo in sede di ottemperanza alle sentenze di condanna del giudice civile ordinario, anche se limitatamente a quelle passate in giudicato.
2. La tutela inibitoria-ripristinatoria e le misure di coercizione indiretta del provvedimento giudiziale. La figura dell’astreinte.
Per tentare di coniugare il principio di effettività con la suddetta incoercibilità degli obblighi infungibili, in alcuni casi eccezionali vengono utilizzate tecniche di tutela inibitoria-ripristinatoria che dovrebbero costringere il datore di lavoro a tenere un determinato comportamento, positivo o negativo, corredandole alle volte con misure di coercizione indiretta o compulsoria . Tali misure rientrano nel più ampio genus di quei rimedi che hanno come scopo, non quello di fare ottenere al titolare del diritto il bene o l’utilità dovuta, quanto di costringere il soggetto ad adempiere “spontaneamente” al proprio obbligo attraverso appunto la minaccia di conseguenze afflittive .
All’interno di tale ampia categoria si possono distinguere, su di un piano funzionale, le misure che hanno lo scopo di indurre all’ottemperanza del provvedimento giurisdizionale, denominate anche compulsorie indirette, o di “coercizione indiretta”, come si esprime la rubrica dell’art. 614 bis c. c., da quelle invece che sono poste direttamente a corredo della fattispecie sostanziale e che, quindi, scattano per la violazione del precetto normativo, denominate anche afflittive dirette .
Nell’ambito delle misure del primo tipo la più nota è quella prevista dall’art. 28 Stat. lav., che, per rendere effettiva la tutela dell’interesse sindacale, ha utilizzato addirittura una tecnica penale ingiunzionale quale misura appunto coercitiva indiretta, al fine di sanzionare il datore inottemperante all’ordine di cessazione della condotta antisindacale o alla rimozione dei suoi effetti, che non viene meno neppure a seguito della successiva riforma in sede civile del provvedimento inottemperato , poiché il bene protetto dalla norma penale è l’esecutività dell’ordine del giudice e non direttamente l’interesse sostanziale.
Altra norma che utilizza la tecnica inibitoria-ripristinatoria praticamente identica corredandola anche qui con la tecnica compulsoria penale ingiunzionale, è l’art. 38, comma 4, D.L.vo n. 198/2006, in caso di inottemperanza al decreto che ordina al datore di lavoro la cessazione della condotta o di rimozione degli effetti in caso di atti discriminatori.
Al di là di queste eccezionali forme di coercizione indiretta di natura penale, vi è la figura generale dell’astreinte, nata dall’elaborazione del diritto francese, prima giurisprudenziale, poi codificata come pena moratoria giudiziaria, per cui il debitore può essere condannato a pagare una somma per ogni giorno di ritardo nell’adempimento; qui lo scopo evidentemente non è di riparare al pregiudizio derivante dall’esecuzione tardiva al quale provvedono gli interessi moratori, ma di indurre il debitore ad adempiere, con la minaccia di dover subire una condanna via via crescente; come è stato affermato, l’efficacia dell’astreinte dipende “dalla capacità di resistere del debitore e delle sue sostanze” .
Una misura accostabile alla suddetta fattispecie della astreinte può essere vista nella norma dell’articolo 18, ultimo comma, Stat. lav., che prevede il pagamento al fondo adeguamento pensioni da parte del datore di lavoro di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore per ogni giorno di ritardo nella non ottemperanza alla sentenza di reintegrazione del sindacalista illegittimamente licenziato, a conferma della incoercibilità diretta della reintegrazione anche per il sindacalista. Proprio questa progressività nell’ammontare della sanzione, crescente per ogni giorno di ritardo nella ottemperanza, sembra appunto richiamare il suddetto modello francese dell’astreinte, da cui però si distacca per la predeterminazione legale e la destinazione della somma a soggetto diverso dal creditore . Quest’ultimo aspetto probabilmente ha indotto le Sezioni Unite sul danno punitivo del 2017 a citare anche tale misura come esempio di risarcimento a cui si aggiunge anche la funzione sanzionatoria; ma è evidente che qui non si tratta di una misura di coercizione indiretta per l’inadempimento, né tantomeno essa svolge una funzione di riparazione del danno a vantaggio della vittima, bensì è una tecnica diretta ad indurre all’esatto adempimento del provvedimento giudiziale.
3. L’inapplicabilità dell’art. 614 bis c. c. al rapporto di lavoro.
L’auspicio che anche in Italia si introducesse una misura analoga all’astreinte si è avverato con la riforma del processo civile del 2009, che ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento una generale misura compulsoria, definita nella rubrica dell’articolo come “misure di coercizione indiretta”, appunto in relazione all’inottemperanza di provvedimenti di condanna incoercibili art. 614 bis, c. c. La ratio della disposizione è senza dubbio quella di indurre il condannato a conformarsi ad una condanna insuscettibile di esecuzione forzata. Si tratta, appunto, di un astreinte in quanto prescinde dal verificarsi di un danno, che rileva solo come uno dei criteri per la quantificazione della somma.
La disposizione, come si sa, esclude espressamente dal proprio campo di applicazione le controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.
Questa esclusione da alcuni è stata ritenuta sicuramente incostituzionale in quanto ingiustificabile, considerato che proprio nel rapporto di lavoro vi sono numerose obbligazioni di fare e di non fare infungibili. Si è sostenuto che l’irragionevolezza di tale esclusione sarebbe talmente sorprendente e macroscopica che si spiegherebbe soltanto con la chiara scelta politica di una vera e propria opzione classista . Perfino il Consiglio Superiore della Magistratura, in un parere del 30 settembre 2008, si è espresso in termini di una “ingiustificata esclusione anche della fattispecie, che più di altre meriterebbe invece di essere presidiata con condanna a favore del lavoratore”.
È significativo che non risulta sia stata sottoposta alla Consulta la questione dell’esclusione delle condanne relative al rapporto di lavoro dal campo di applicabilità dell’art. 614 bis c. c. L’infondatezza dei dubbi di costituzionalità è stata espressa da una sentenza del Tribunale di Milano , la cui decisione illustra forse meglio di ogni altro argomento una delle ragioni più consistenti di tale esclusione. Si trattava di un caso di inottemperanza all’ordine di reintegrazione e il giudice aveva riconosciuto, in aggiunta alle retribuzioni ai sensi dell’art. 18 Stat. lav., anche un risarcimento pari ad una ulteriore retribuzione per ogni mese di mancata reintegrazione ai lavoratori per il danno alla professionalità ai sensi dell’art. 2103 c.c., patito a seguito, appunto, della loro mancata reintegrazione. Ma per i ricorrenti non era sufficiente ed avevano chiesto, inoltre, il pagamento di 1.000,00 euro al giorno come misura per l’inottemperanza all’ordine di reintegrazione per ulteriori 50.000,00 euro, previa rimessione alla Corte costituzionale della questione di costituzionalità dell’art. 614 bis c. c. Il Giudice, ragionevolmente, ha rigettato quest’ultima richiesta, con la motivazione che l’ordinamento attribuisce specifica rilevanza costituzionale ad entrambe le posizioni giuridiche coinvolte nel rapporto di lavoro.
In realtà la vera ragione dell’inapplicabilità al rapporto di lavoro dell’art. 614 bis c. c. è connessa alla sua specificità quale contratto di durata, in cui l’effetto dissuasivo dell’inottemperanza alla condanna spesso è già incorporato nella disciplina del rapporto. Infatti, oltre alle specifiche misure compulsorie, già espressamente previste dalla disciplina speciale, si devono aggiungere i rimedi ordinari di diritto comune che possono assolvere ad una funzione di coercizione indiretta, come, ad esempio, negli illeciti di danno, il risarcimento che aumenta con la continuazione dell’illecito durante il rapporto in quanto l’accertamento da parte del giudice avviene spesso a distanza di tempo.
Inoltre, concorre in questo senso anche l’effetto demolitorio degli atti del datore contrari alle norme inderogabili, a cui può aggiungersi l’applicazione della disciplina della mora credendi, come talvolta praticata dalla giurisprudenza, che trasforma tale istituto da strumento di responsabilità per la mancata liberazione del debitore-lavoratore, in strumento di coazione. Basti por mente al riguardo, oltre al recente caso che vedremo della doppia retribuzione nella fattispecie del trasferimento d’azienda illegittimo, a quello che è successo a proposito della sanzione conseguente alla violazione dell’art. 7 Stat. lav., nell’area della tutela obbligatoria prima della riforma del 2012, allorquando sono dovute intervenire la Sezioni Unite della Cassazione, avallate dalla Corte costituzionale, elaborando la tesi, ingegnosa ma creativa, della sanzione d’area, al fine di evitare gli eccessi e le incongruenze derivanti dalla c.d. nullità di diritto comune del licenziamento, anche se giustificato, ma intimato in violazione della norma inderogabile dell’art. 7 Stat. lav.
4. La doppia retribuzione come tecnica di coazione indiretta di origine giurisprudenziale: il caso del trasferimento d’azienda illegittimo.
Un esempio paradigmatico di misura di coercizione indiretta del provvedimento del giudice, di origine giurisprudenziale, e quindi di uso creativo della tecnica dei rimedi atipici, anch’esso figlio dell’età della giurisdizione, è costituito dalle sentenze della Cassazione , ad iniziare dalle Sezioni Unite , avallate dalla Consulta , che, in relazione all’illegittimità del trasferimento di azienda, hanno riconosciuto il diritto ad una seconda retribuzione dovuta anche dal cedente, in aggiunta a quella percepita dal cessionario per lo stesso periodo in cui il lavoratore abbia continuato a lavorare per quest’ultimo anche dopo la sentenza.
Tutto è iniziato dalle Sezioni Unite del 2018 , le quali, in un caso di interposizione fittizia di manodopera, hanno ritenuto di “rivisitare” il precedente orientamento della Cassazione, secondo cui l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina unicamente conseguenze di natura risarcitoria con detraibilità dell’aliunde perceptum. Nel far ciò le Sezioni Unite hanno sentito il bisogno di fare riferimento anche al trasferimento d’azienda, pur non riguardando il caso che dovevano decidere; nell’effettuare questo accostamento le Sezioni Unite non hanno però accennato alla differenza di disciplina decisiva tra le due fattispecie, per l’aspetto che qui interessa, e cioè la norma che nell’interposizione prevede l’effetto liberatorio per il datore effettivo dei pagamenti erogati dall’interposto art. 27, comma 2, D.L.vo n. 276/2003.
Dopo di che le Sezioni Unite si sono dedicate esclusivamente alla fattispecie dell’interposizione per modificare il suddetto precedente consolidatissimo orientamento , affermando, in base ad una loro interpretazione costituzionalmente orientata, la natura retributiva dell’obbligazione che grava sul datore di lavoro che, messo in mora dal lavoratore in seguito alla sentenza, non ne accetti la prestazione. Da questo principio non ne è però scaturito nulla in relazione al caso che la sentenza doveva decidere in quanto, trattandosi di interposizione, la sentenza stessa ha poi dovuto far applicazione del suddetto art. 27, cit., negando quindi la doppia retribuzione al lavoratore. Si potrebbe quindi quasi parlare di un gigantesco obiter dictum, in quanto la questione relativa alla natura giuridica delle somme corrisposte dall’interposto non costituiva la ragione più liquida, essendo irrilevante ai fini della decisione del giudizio.
Si può approvare o criticare questo singolare modo di procedere della nomofilachia ai suoi massimi livelli, ma essa presenta in ogni caso i caratteri propri di quella che abbiamo definito l’età della giurisdizione, come si evince dall’effetto pratico, probabilmente voluto, che le Sezioni Unite hanno poi ottenuto, estraneo al caso che avevano deciso, in quanto le sentenze della Cassazione successive hanno applicato il suddetto arresto alla fattispecie del trasferimento d’azienda, rendendo appunto effettivo quel principio con il riconoscimento del diritto alla doppia retribuzione in quanto per tale fattispecie non è prevista una norma analoga all’articolo 27 cit. che libera il cedente. Tali sentenze non hanno fatto mistero della natura di misura di coercizione indiretta di questo obbligo, avendo sostenuto che la seconda retribuzione è concepita anche come deterrente idoneo a favorire la ripresa dell’attività lavorativa presso il cedente, al fine di non sminuire la forza cogente della sentenza, che invece una tutela esclusivamente risarcitoria, con la conseguente possibilità della detrazione dell’aliunde perceptum, non avrebbe così efficacemente assicurato . Funzionale a questa deterrenza sarebbe dunque la ricostruzione della fattispecie in termini di mora credendi, poiché consentirebbe di annullare l’effetto estintivo dei pagamenti effettuati dal soggetto utilizzatore, in ragione della ritenuta natura retributiva delle somme dovute dal cedente.
Al di là del merito della questione, viene da chiedersi perché una giurisprudenza così attenta ai profili di costituzionalità, non si sia posta il problema se sia giustificata o no la differenza tra le due fattispecie, che le stesse Sezioni Unite ritengono “assimilabili”, in relazione all’effetto liberatorio del pagamento del terzo previsto solo per l’interposizione e non per il trasferimento, o se, all’ opposto, sia addirittura sospetto di incostituzionalità l’art. 27, cit., proprio in ragione dell’argomentazione delle Sezioni Unite, tutta basata sulla necessità di una interpretazione costituzionalmente orientata, dovendosi allora sottoporre al vaglio del giudice delle leggi l’eventuale incostituzionalità di tale norma, nella misura in cui non consentirebbe l’operare dell’effetto dissuasivo della doppia retribuzione e quindi il diritto, che sarebbe costituzionalmente obbligato, al rimedio effettivo.
L’altro aspetto interessante da sottolineare è l’introduzione di una tale misura in mancanza di una norma specifica che autorizzi espressamente una funzione “compulsiva” della retribuzione in assenza di prestazione lavorativa , per cui la giurisprudenza fa ricorso direttamente a un principio, quello appunto costituito dall’“effettività del rimedio”. Sicché, tale rimedio viene egualmente reperito dall’interprete “nelle pieghe del sistema” , al fine di trovare la risposta più adeguata al bisogno individuale di tutela. È dunque l’interprete, e quindi il giudice, che decide, lui, il rimedio effettivo e non più il legislatore, trovandolo qui nella retribuzione senza prestazione lavorativa, mediante la disciplina della mora credendi; quest’ultima viene quindi trasformata, rispetto alla sua funzione originaria di strumento di responsabilità per la mancata liberazione del debitore-lavoratore, per essere utilizzata invece come misura coercitiva atipica .
È ovvio che il metodo di andare alla ricerca “nelle pieghe del sistema”, del rimedio più efficace, espone a una serie di rilievi critici in ordine alla scelta di quello che secondo i giudici sarebbe “messo a disposizione della legge”, trattandosi pur sempre di interpretazione adattatrice di norme e istituti che non hanno questa funzione, e quindi di una utilizzazione impropria di istituti giuridici del diritto delle obbligazioni e dei contratti .
Le stesse Sezioni Unite mostrano di essere consapevoli di questa incertezza, sentendo il bisogno di trovare più di un fondamento normativo con un approccio “plurifattoriale”. Vi è perfino l’accostamento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011, sull’indennità del lavoro a termine prevista dall’art. 32, L. n. 183/2010, citata come utile argomentazione a sostegno, quando invece in quel caso la Consulta non ha affatto preso posizione in ordine alla qualificazione retributiva o risarcitoria del quantum dovuto dopo la sentenza , in quanto doveva semplicemente respingere una interpretazione che pretendeva di sostenere che l’indennità, tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità, coprisse anche il periodo successivo alla sentenza che accerta la nullità del termine e dichiara la conversione del rapporto.
Singolare in questo contesto si mostra anche la sentenza della Corte costituzionale n. 29/2019 rel. Sciarra, che si è limitata a certificare la nascita di un nuovo “diritto vivente” senza verificare la sua esatta consistenza, soprattutto quando questa nuova interpretazione afferma di basarsi sul suddetto precedente della stessa Consulta riguardante l’indennità del contratto a termine, che però, come si è visto, non si è pronunciata sul punto.
L’aspetto più sorprendente – qualcuno direbbe fisiologico nell’età della giurisdizione e del diritto liquido – è che questa sorta di “neo nato” diritto vivente, “certificato” dalla Consulta n. 29/2019, non ha fatto neanche in tempo a nascere e già si è posto in contrasto con un’altra sentenza di solo un anno prima della stessa Corte costituzionale, di altro relatore, non Sciarra ma Morelli, del 23 aprile 2018, n. 86. Infatti, con quest’altra sentenza la Consulta, nel rigettare la prospettata questione secondo cui sarebbe costituzionalmente obbligata la natura di mora accipendi delle somme dovute dal datore dopo la sentenza di reintegra, in caso di inottemperanza al provvedimento, ha infatti ribadito, anche in relazione al nuovo art. 18, comma 4, Stat. lav., che la natura risarcitoria di tali somme è conforme con la nozione di retribuzione ricavabile dalla Costituzione art. 36 Cost., secondo cui tale diritto sussiste solo in ragione della e in proporzione alla eseguita prestazione lavorativa; se il datore non accetta la prestazione del lavoratore, ciò integra una “obbligazione risarcitoria” in quanto egli è inadempiente all’obbligo di fare, infungibile, di reintegrare il lavoratore, da cui deriva la conseguenza dannosa del lucro cessante, costituita dalle retribuzioni perdute. Si spiega così, sia la detrazione dell’eventuale aliunde perceptum e percipiendum, sia la ripetizione di tali somme da parte del datore di lavoro che ha “scommesso” sulla legittimità del licenziamento . Il contrasto tra le due sentenze della Corte costituzionale si evidenzia anche sotto un altro aspetto, laddove la sentenza n. 86/2018, pur ammettendo l’applicabilità della mora credendi in aggiunta al suddetto risarcimento, per gli eventuali danni ulteriori alla retribuzione perduta che la mancata riammissione abbia provocato al lavoratore, afferma la natura comunque risarcitoria dei suoi effetti. In sostanza, la sentenza n. 86/2018 della Consulta ci dice che, perfino a fronte dell’ordine giudiziale di reintegrazione, l’ordinamento non prevede che si utilizzi la tecnica di attribuire natura giuridica di retribuzione, in assenza di prestazione lavorativa, alle somme dovute al lavoratore al fine di ottenere l’effetto compulsorio impedendo la riduzione di tali somme in presenza dell’aliunde perceptum, nonché la loro ripetibilità in caso di successiva vittoria del datore di lavoro.
È evidente che il suddetto metodo è inevitabilmente foriero di contraddizioni sistematiche. Basti pensare alle difformità di opinioni, anche tra i civilisti, in ordine alla quantificazione in termini di risarcimento o di corrispettivo di quanto dovuto dal creditore in mora , non essendo da taluni concepibile la corresponsione delle retribuzioni ove non sia stato prestato lavoro. Ma nel catalogo dei dubbi se ne aggiungono altri, quali: l’opinabilità dell’assegnazione a un medesimo pagamento della duplice funzione, di retribuzione di mora e misura compulsoria ; il delicato collegamento della misura compulsoria con le sorti del provvedimento cui si riferisce , che normalmente è automaticamente travolta insieme all’ordine cui inerisce, con conseguente ripetibilità di quanto già indebitamente pagato da chi aveva diritto di disobbedire all’ingiusto provvedimento , mentre qui, con la qualificazione in termini di retribuzione della somma dovuta dal cedente, questa ripetibilità si complica; l’anomalia derivante dal contrasto tra la funzione di coazione indiretta di un simile obbligo retributivo con la non applicabilità del rapporto di lavoro all’art. 614 bis c. c., sicché sarebbe preferibile sollevare questione di legittimità costituzionale di tale norma per l’esclusione del diritto del lavoro dal suo campo di applicazione, piuttosto che una sua applicazione surrettizia mediante astreinte non tipizzate .
Ed infatti, puntualmente, sono emerse “ribellioni” tra i giudici di merito che sono tornati alla precedente qualificazione risarcitoria, rilevando l’assoluta impossibilità di cumulare le due retribuzioni. Tra gli argomenti utilizzati, in primo luogo, vi è il principio dell’adempimento del terzo di cui all’art. 1180 c.c., per cui il pagamento del cessionario ha efficacia estintiva dell’obbligo retributivo in capo al cedente, considerata l’unicità del rapporto giuridico nascente dal trasferimento d’azienda, che “deve” rimanere eguale nei suoi elementi oggettivi . Vi è poi l’argomento dell’impossibilità, fin sotto il profilo ontologico, del lavoratore di eseguire materialmente la stessa prestazione lavorativa anche a favore del datore di lavoro cedente, con inconfigurabilità dell’offerta della prestazione e quindi degli effetti retributivi della mora credendi . Riecheggia qui l’eco di una tesi che ritiene che il requisito essenziale di una valida “l’offerta” che fa scattare la mora, sia quello della “serietà e coerenza dell’atteggiamento” , tale da non lasciare alcun margine di incertezza circa la perdurante piena disponibilità del debitore , la cui occupazione altrove può essere vista come comportamento contraddittorio rispetto all’offerta o addirittura come ritiro dell’offerta stessa .
Questa vicenda induce a ritenere che il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale non possa giustificare di per sé qualsiasi approdo interpretativo, oltretutto ai massimi livelli della giurisdizione. Il che rimanda sempre al medesimo problema generale di politica del diritto: se affidare al legislatore, oppure al giudice, la selezione degli interessi meritevoli di protezione mediante misure compulsive indirette e la loro individuazione con le relative modalità.
Sezione III – Sanzioni afflittive dirette per la violazione del precetto sostanziale.
1. Sanzioni, pene private e risarcimento del danno polifunzionale.
L’effettività dei rimedi può essere garantita anche mediante la tecnica delle sanzioni afflittive poste a corredo direttamente della fattispecie sostanziale, con funzione eminentemente dissuasiva e/o punitiva, differenziandosi quindi dalle misure compulsorie dell’ottemperanza al provvedimento giurisdizionale.
Si tratta di una variegata tipologia di tecniche, che vanno dalla incriminazione penale diretta, alle sanzioni civili o amministrative il cui scopo è sempre quello di rinforzare l’effettività della protezione di determinati interessi ritenuti particolarmente meritevoli che il legislatore reputa non possa essere adeguatamente soddisfatta mediante le tradizionali tutele giurisdizionali civili, specifiche e risarcitorie . A tal fine la funzione della sanzione è duplice: da un lato, quella diretta a prevenire l’illecito e non ad eliminarne le conseguenze, distinguendosi così dalla tutela specifica; dall’altro, quella di reprimere in vario modo, una volta verificatasi la violazione, il comportamento del soggetto, per mezzo di conseguenze afflittive, per cui non occorre dare prova del danno, a differenza di ciò che accade nella funzione riparatoria .
È proprio in relazione alle sanzioni civili che emergono le maggiori difficoltà di distinzione di funzioni rispetto al risarcimento del danno, allorquando si è in presenza di disposizioni in cui, a fronte dell’illecito, accanto alla funzione compensativa-riparatoria, emerge una natura “polifunzionale”, che ci proietta verso più aree, tra cui sicuramente le principali sono quella preventiva o dissuasiva o quella sanzionatorio-punitiva . Anche nella dottrina civilistica, ormai da tempo, sono state proposte letture del risarcimento non soltanto in chiave riparatoria ma anche sanzionatoria e quindi volte a mettere in evidenza il suddetto carattere polifunzionale. Questa concezione nasce dalla più generale precomprensione secondo cui, solo attribuendo alla responsabilità civile una funzione sanzionatoria che la esacerbi oltre il punto di ristoro del danno, essa possa svolgere una funzione di prevenzione .
In che peraltro si verifica, con una sorta di movimento a ritroso, anche quando la giurisprudenza non reputa adeguata la sanzione prevista dalla norma, per cui la trasforma in risarcimento, o vi aggiunge una componente di questo tipo, a fini dissuasivi, come si vedrà, ad esempio, a proposito della sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale.
È quindi dato riscontrare tutto un intrecciarsi, accavallarsi, confondersi, sovrapporsi, di funzioni compensative, deterrenti, preventive, punitive, secondo i dettami propri del diritto liquido che esalta il creazionismo giudiziario, mediante il quale può essere più agevolmente scelto, in questa sorta di cassetta degli attrezzi, il rimedio che al singolo giudice appare maggiormente efficace, anche se espressamente non previsto o addirittura alle volte, non consentito dalla legge. La confusione sistematica è tale che il legislatore, nell’art. 38, D.L.vo n. 198/2006, contro le discriminazioni, ha avvertito la necessità di specificare ciò che dovrebbe essere ovvio, e cioè che il risarcimento viene ammesso “solo nel limite della prova fornita”.
Questa oscillazione interpretativa, dalla qualificazione sanzionatoria a quella risarcitoria, si fa ancora più accentuata al cospetto del ruolo sempre maggiore che ha acquisito, nell’ambito delle sanzioni civili, la categoria delle pene private di fonte legale, a cui si deve ritenere applicabile il principio dell’art. 1382 c.c. , come tecnica penale sostitutiva di qualsiasi risarcimento, ma che nel contempo svolge una evidente e forse prevalente funzione sanzionatoria .
Vengono così messe in crisi le schematiche distinzioni tradizionali, alla cui stregua riparazione, coercizione e sanzione sono concetti profondamente diversi : la prima, con il risarcimento, risponde all’esigenza appunto di riparazione di un pregiudizio che è stato inferto a un soggetto a causa dell’inosservanza di un comportamento giuridicamente dovuto; la seconda, la coazione, è diretta ad assicurare il rispetto delle regole; la terza, la sanzione, serve a “castigare” l’inosservanza delle regole stesse . In particolare, nella sanzione, il fine di deterrenza non è concreto perché non può più interessare il danneggiante influenzando le sue azioni che si sono già verificate. Qui non vi è alcuna minaccia, ma l’applicazione di una “pena”, che è concetto ritenuto ben diverso. La “minaccia” è di tipo indiretto, perseguendo l’obiettivo collaterale di scoraggiare altri eventuali soggetti dal compiere il medesimo comportamento, ma non potrà più svolgere nei confronti del danneggiante nessun effetto dissuasivo, essendo ormai precluso qualsiasi obiettivo di deterrenza nei suoi confronti già avvenuto e mediante una sanzione già definita.
Invece, ora, ogni qual volta che si dà corso alla sensazione che il risarcimento non sia sufficiente a “ripagare” il mal fatto, bisogna “punire” l’autore; di qui l’idea, sviluppatasi in particolare negli Stati Uniti, dei danni appunto punitivi.
Il diritto del lavoro trova dunque difficoltà, in questa materia, a reperire dal diritto civile i supporti di cui avrebbe bisogno. Pur tuttavia, proprio dai civilisti viene chiamata in causa la disciplina lavorista, come è accaduto con la pronuncia delle Sezioni Unite 7 febbraio 2017, n. 16601, che ha riguardato la riconoscibilità nell’ordinamento italiano di una sentenza americana in materia di condanna a titolo di danni punitivi . Infatti, le Sezioni Unite, nell’affermare che nel nostro sistema si sono venute moltiplicando le disposizioni legislative che impongono agli autori di determinati illeciti pagamenti sganciati dal danno effettivamente prodotto e finalizzati a sanzionare le condotte del responsabile, hanno richiamato anche una serie di misure lavoristiche. E così, è stato fatto riferimento alle cinque mensilità previste dall’articolo 18, comma 2, Stat. lav., come risarcimento minimo garantito anche quando la reintegrazione avviene prima dei cinque mesi, e quindi senza alcuna relazione con il danno, con finalità, secondo le Sezioni Unite, di colpire al di sopra della necessità della riparazione il comportamento del danneggiante per il sol fatto che sia stato commesso il licenziamento illegittimo. Al riguardo però il richiamo non appare del tutto conferente in quanto la legittimità costituzionale di questa erogazione minima, dovuta a prescindere da qualsiasi prova, è stata affermata non in ragione della sua funzione punitiva, ma quale realistica presunzione legale di danno secondo la discrezionalità del legislatore . Inoltre, le Sezioni Unite hanno fatto riferimento, sempre nell’ambito di questa ricognizione di danni punitivi già esistenti nel nostro ordinamento, alla somma che il datore di lavoro deve versare all’INPS ai sensi dell’art 18, comma 14, Stat. lav. per ogni giorno di ritardo nell’ottemperare alla reintegrazione del sindacalista illegittimamente licenziato; ma anche qui, più che un danno punitivo per l’inadempimento della fattispecie sostanziale, questa misura, come si è visto, è da ritenere più propriamente una sorta di astreinte, compulsiva indiretta per rafforzare l’esecuzione del comando giudiziale. Ancora, sempre le Sezioni Unite, hanno citato l’indennità da due e mezzo a dodici mensilità stabilita dall’articolo 28, comma 5, D.L.vo n. 81/2015; in questo caso il richiamo appare appropriato in quanto i criteri previsti per la determinazione di tale indennità – numero dei dipendenti occupati, dimensione dell’impresa, anzianità di servizio, comportamento e condizioni delle parti – non attengono affatto all’ammontare del danno, ma più che altro alle caratteristiche dell’autore dell’illecito, allo stato del rapporto e alla gravità dell’evento, criteri del tutto scevri dal danno conseguenza inteso come ammanco patito dal lavoratore.
2. Possibili criteri distintivi: la terzietà del soggetto beneficiario e la gravità dell’infrazione: il caso di Corte cost. n. 150/2020.
Come si è visto, il principale fattore che genera la suddetta confusione è innanzitutto lo sganciamento del risarcimento dal danno effettivo, che può avvenire anche attraverso la misura patrimoniale predeterminata dal legislatore come risarcimento forfettario, con esonero della prova di tale danno.
Per evitare tuttavia che, a questo punto, il concetto di sanzione diventi talmente generico, fino ad accumunare tutto ciò che può definirsi rimedio contro un torto ricevuto, dalla dottrina tradizionale è stato elaborato una sorta di connotato base, individuato nella riconduzione della sanzione ad autonomo precetto giuridico che si differenzia da quello che è stato definito primario e che si assume violato, sicché la sanzione andrebbe ricondotta a precetti giuridici aventi carattere secondario . Da questa impostazione discende l’importante corollario della necessità di una previsione specifica della misura sanzionatoria a carico di soggetti definiti responsabili della inosservanza del precetto primario. Se questo principio è costituzionalizzato per le sanzioni penali, era tuttavia avvertita l’esigenza che la sanzione fosse espressamente stabilita anche per il diritto privato, da precetto di legge o da atto di autonomia negoziale. Ma, come si è visto, questi postulati vengono messi in discussione dalle nuove teorie sulla ipervalorizzazione del principio del rimedio effettivo, anche al di là di una espressa disposizione normativa.
Sempre al fine di specificare ulteriormente la nozione di sanzione, in dottrina sono stati proposti alcuni ulteriori criteri per distinguerla dal risarcimento.
Il più efficace può essere visto nella terzietà del soggetto beneficiario; si è sostenuto infatti che in caso di misura puramente afflittiva il destinatario della somma non dovrebbe essere la parte lesa, che resta titolare del separato diritto al risarcimento . Indubbiamente, ricorrendo la suddetta caratteristica, è sicura la natura sanzionatoria e non risarcitoria della misura. Ad esempio, è questo il caso previsto dall’art 16, comma 2, Stat. lav., secondo cui il datore di lavoro che concede trattamenti economici collettivi discriminatori di maggior favore è condannato, su richiesta dei lavoratori discriminati o dei sindacati mandatari, a pagare all’Inps una somma pari all’importo dei trattamenti illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno. La sanzione in questo caso si spiega con la impossibilità di configurare un danno risarcibile e un diritto all’equiparazione in alto dei discriminati . In questa fattispecie la tecnica della invalidazione dell’atto del datore che stabilisce il trattamento di miglior favore , si accompagna dunque alla tecnica sanzionatoria, appunto come misura afflittiva diretta; qui si nota la differenza con quella di cui all’ultimo comma dell’art. 18 Stat. lav. per il sindacalista non reintegrato, che invece è tipicamente compulsoria dell’inosservanza dell’ordine del giudice.
Se in presenza del suddetto elemento è sicura la natura sanzionatoria, non può ovviamente affermarsi il contrario, e cioè che non possa esservi sanzione o penale quando la somma è destinata al soggetto che subisce l’illecito. In questo caso si fa però più problematica la distinzione con il risarcimento.
Al riguardo, un elemento della fattispecie che può fungere da chiaro indicatore della natura sanzionatoria può essere individuato nei criteri di commisurazione per la quantificazione, che inducono ad escludere la natura risarcitoria se sono incentrati sul grado della colpa, con conseguente connotazione e funzione punitiva e quindi ontologicamente diversa da quella riparatoria del danno . Ad esempio, la determinazione della sanzione disciplinare trova il suo limite nella proporzionalità rispetto alla gravità dell’infrazione e non alla mera entità del danno economico arrecato dall’inadempimento del lavoratore; tant’è vero che il datore di lavoro ha a disposizione l’autonoma azione risarcitoria per il ristoro di tale danno, che si cumula con quella punitiva.
Anche secondo la categoria classica della responsabilità civile, l’idea che il danno debba essere compensato non sarebbe da riconnettere all’idea di punizione, invece propria del diritto penale, ma piuttosto a una concezione di giustizia commutativa, che configura un mero scambio tra equivalenti, il bene della vita e il risarcimento .
Un caso emblematico in tal senso, che evidenzia l’importanza di tenere presente la distinzione tra sanzione e risarcimento del danno, per evitare di generare interpretazioni inconferenti, è costituito dalla indennità prevista per i vizi formali e procedimentali del licenziamento, prevista dall’art. 18, comma 6, Stat. lav., in cui il giudice determina l’importo dell’indennità tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità esclusivamente in base, appunto, al criterio della “gravità della violazione formale o procedurale”. E ciò risponde alla reale funzione afflittiva di tale indennità, posta a corredo delle prescrizioni formali o procedurali, con funzione di dissuadere il soggetto alla violazione del precetto. È pur vero che l’art. 18, comma 6, Stat. lav., utilizza il termine “risarcimento”, ma tale qualificazione è evidentemente impropria, tant’è vero che questo errore non è ripetuto dall’omologo art. 4, D.L.vo n. 23/2015, in cui è assente la parola risarcimento, così come non è stato ripetuto l’errore di qualificare “inefficace” il licenziamento con vizi formali e procedimentali ma è stato correttamente previsto che il giudice “dichiara estinto il rapporto” . È evidente, infatti, che tale indennità non ha lo scopo di risarcire il danno per la lesione del diritto di essere licenziato solo in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo e quindi per la perdita, in conseguenza di tale fatto, del posto di lavoro , come è confermato inequivocabilmente dalla previsione che consente sempre al lavoratore di chiedere al giudice, in aggiunta, l’accertamento dell’eventuale ingiustificatezza del licenziamento con la relativa indennità risarcitoria. Sicché l’indennità per il vizio formale o procedimentale spetta comunque anche se all’esito di tale accertamento il licenziamento risulti giustificato.
Non aver colto questa distinzione è alla base delle critiche mosse alla sentenza della Consulta n. 150/2020, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 4, D.L.vo n. 23/2015 nella parte in cui determinava l’indennità per i vizi procedimentali con criterio di calcolo predefinito in base alla sola anzianità.
Ciò che non convince di tale sentenza, infatti, è l’idea di fondo di volere equiparare, sia pure ai fini dei criteri di determinazione della sanzione, due fattispecie che invece rimangono differenti, in quanto, un conto è un licenziamento ingiustificato, ben diverso è invece un licenziamento che, pur presentando qualche vizio procedimentale o formale, tuttavia è pur sempre giustificato, cioè sorretto da una giusta causa o un giustificato motivo.
Tale distinzione risultava bene evidenziata nei giudizi a quo: il Tribunale di Bari aveva accertato con sentenza non definitiva la legittimità sostanziale del licenziamento ma, avendo riscontrato la mancata contestazione di uno degli addebiti, poi entrati ugualmente nella motivazione del recesso, nonché l’inosservanza del termine previsto dal contratto collettivo per l’intimazione dello stesso, a quel punto ha sospeso il giudizio avendo dubitato della legittimità costituzionale del riconoscimento di due sole mensilità al lavoratore.
Orbene, la Consulta sembra non avvedersi, forse per malintese esigenze sistematiche, che la suddetta fondamentale differenza non può non avere ripercussioni, oltre che, come è evidente, sulla diversa soglia minima e massima della sanzione – fatte salve, infatti, dalla sentenza – anche sui suoi criteri di determinazione. La Consulta invece non opera tale distinzione e ragiona anche in questo caso come se si trattasse di risarcire il danno per la lesione del diritto di essere licenziato solo in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, e quindi per la perdita del posto di lavoro in conseguenza di tale “fatto” . Pertanto, la Corte si preoccupa, come nella precedente sentenza n. 194/2018, della personalizzazione di un simile danno, affidandola alla discrezionalità del giudice, solo “suggerendo” alcuni criteri, che, oltretutto, si rilevano, anche qui, quasi tutti non coerenti con tale inconferente finalità.
Si appalesa dunque evidente l’importanza, anche a fini interpretativi e non solo sistematici, della suddetta fondamentale distinzione tra sanzione civile e risarcimento del danno .
Non si comprende perché allora la Consulta non si sia limitata a suggerire il solo criterio alternativo costituito appunto dalla gravità dell’infrazione, o addirittura, con sentenza interpretativa di rigetto, di intenderlo previsto dall’art. 4, D.L.vo n. 23/2015, al pari dell’art. 18, comma 6, per la medesima fattispecie, invece di perseverare nella tecnica del ritaglio ablativo, lasciando nel dispositivo della sentenza, e quindi nell’ordinamento, una norma priva di criteri.
Questo avrebbe comportato un duplice risultato utile: avrebbe egualmente consentito pur sempre di avere un’attenzione alla specificità del singolo caso, al di là dell’automatismo costituito dall’anzianità, modulando la sanzione, non rispetto al danno, ma al differente livello di gravità che possono presentare le infrazioni formali o procedimentali; inoltre avrebbe eliminato l’altro problema che ora si pone, della non ragionevole differenza con il comma 6 dell’art. 18, che invece prevede solo quel criterio vincolante per il giudice, anche se le soglie minime potrebbero essere più favorevoli.
In effetti questa materia ben si presta a questo tipo di graduazione in base alla gravità dell’infrazione, perché, come è noto, possono esservi differenze anche notevoli in ordine alla tipologia di vizi formali e procedimentali, come si evince fin dal giudizio a quo. Dalla giurisprudenza emerge infatti un campionario di irregolarità che non poche volte si traducono in “trappole formali” che con i principi di “civiltà giuridica” hanno poco a che fare e che non di rado riguardano profili marginali, se non veri e proprio “ultimi rifugi” del lavoratore che nella sostanza è consapevole della giustificazione del licenziamento . Per le infrazioni bagatellari di questo tipo – a cui, prima della riforma del 2012, sarebbe stata applicabile la massima sanzione della reintegrazione a risarcimento illimitato, è bene sempre ricordarlo per i nostalgici del vecchio regime – il giudice che applica l’art. 18, comma 6, può quindi graduare l’entità della sanzione in base all’unico criterio della gravità; mentre, per il medesimo vizio, quando si tratta di licenziamento di lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015, tutto è lasciato alla discrezionalità del magistrato, il quale, se è ragionevole, applicherà anche lui esclusivamente il criterio della gravità previsto dal comma 6; se invece è “creativo”, comincerà ad introdurre nella determinazione della sanzione criteri inconferenti, come la dimensione dell’organico dell’azienda o il comportamento o le condizioni della parti.
3. Le penali ex lege o indennità punitive e forfettarie.
La difficoltà di distinguere la sanzione, anche nella sua componente di pena privata o di penale, dal risarcimento vero e proprio, si è dunque accentuata quanto più è aumentata la polifunzionalità della tecnica risarcitoria, comprensiva di funzioni non soltanto integralmente compensative.
Volendo tentare una sistemazione, dall’esame di un insieme di fattispecie – escluse quelle relative al licenziamento che verranno trattate a parte – si possono individuare tratti ad esse comuni che portano ad accomunarle alla natura di penali legali, quindi con natura afflittiva/punitiva, con funzione sostitutiva di ogni risarcimento che però può non escludere la funzione di ristoro forfettizzato di un eventuale danno; in tutti i casi, il carattere comune di base consiste nell’esclusione del risarcimento di un danno effettivo, che può anche mancare del tutto, così come può essere superiore o inferiore alla forfettizzazione legale.
Esempio tipico di indennità punitiva dell’illecito può considerarsi quella prevista per il termine nullo dall’art. 28, comma 2, D.L.vo n. 81/2015, da 2,5 a 12 mensilità, dovuta per il periodo precedente alla ricostituzione del rapporto, disposta con la sentenza che dichiara la nullità del termine apposto al contratto di lavoro.
La disposizione utilizza impropriamente il termine “risarcimento del danno”, ma è chiara la natura non risarcitoria ma punitiva dell’illecito in quanto prescinde da un danno effettivo e dalla relativa prova, non è subordinata all’offerta della prestazione, ed i criteri previsti dalla legge per la determinazione dell’indennità in massima parte non hanno alcuna attinenza con il danno subito dal lavoratore.
Inoltre, vi è anche la componente del ristoro forfettizzato di qualunque pregiudizio subito dal lavoratore, anche di natura previdenziale, ovviamente fino alla pronuncia, come recita la norma di interpretazione autentica dell’art. 28, comma 2, cit. Si tratta evidentemente di una disciplina speciale rispetto al diritto comune, proprio in quanto assegna alla nullità effetto solo ex nunc. Infatti, la Cassazione suole qualificarla come una “sorta di penale ex lege a carico del lavoratore” .
Anche la sentenza della Corte costituzionale 11 novembre 2011, n. 303, che l’ha ritenuta legittima, ne ha affermato la chiara valenza sanzionatoria , oltre a ribadire l’ importante principio, forse sottovaluto dalla stessa Corte in sentenze successive, secondo cui la sostituzione del regime risarcitorio di diritto comune con l’indennità forfettaria non è incostituzionale, non solo perché qui l’indennità si combina con la conservazione del posto, ma anche per l’assenza della costituzionalizzazione della regola generale di integrale riparazione del danno, nonché per il ragionevole bilanciamento con l’esigenza della certezza del diritto .
Questo regime speciale non vale più dopo la sentenza che ricostituisce il rapporto, trovando applicazione le regole di diritto comune, con i consueti e connessi problemi qualificatori riguardanti la natura delle somme dovute dal datore di lavoro in caso di mancata riammissione al lavoro del lavoratore in attesa della definitività della sentenza, se di natura retributiva o risarcitoria, da cui dipende la detraibilità dell’aliunde perceptum o della ripetibilità di tali somme in caso di accertamento definitivo della legittimità del termine, come si è visto a proposito del trasferimento di azienda o del regime del post sentenza di reintegrazione nel licenziamento.
Altro esempio di penale forfettaria può essere considerato l’importo, ai sensi dell’art. 2119, comma 1, c.c., a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, dovuto al lavoratore che si dimette per giusta causa a fronte di un inadempimento datoriale, in quanto non indica alcuna destinazione riparatoria di un danno che potrebbe non esserci. Conferma questa qualificazione di penale il fatto che le conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla perdita dell’occupazione sono interamente assorbite da tale indennità . Certamente il lavoratore potrebbe chiedere, in aggiunta, il risarcimento di eventuali danni che derivano direttamente sempre dallo stesso inadempimento, ad esempio un grave demansionamento, ma devono essere diversi da quelli connessi alla perdita dell’occupazione dovuta alle dimissioni, in quanto appunto interamente assorbiti dall’indennità, e comunque perché non sarebbero neppure “conseguenze immediata e diretta” art. 1223 c.c. dell’inadempimento del datore, ma dipenderebbero esclusivamente dal “fatto proprio” del lavoratore.
Medesimo discorso può valere per l’indennità di quindici mensilità sostitutiva della reintegra, proprio perché sganciata da qualsiasi danno.
4. La natura delle indennità per il licenziamento illegittimo.
La tecnica che abbiamo visto delle penali ex lege forfettarie, e della loro distinzione con il risarcimento, è stata oggetto di nuovo e rinverdito dibattito, e dei noti interventi della Consulta, a seguito dell’ampliamento del campo di applicazione dei regimi indennitari di tutela per il licenziamento illegittimo, avvenuta a scapito della tutela reintegratoria.
Il linguaggio stesso del legislatore contribuisce poco alla chiarezza qualificatoria poiché si avvince in una sorta di ginepraio semantico nell’utilizzo del termine “indennità”, che si accompagna con quello di risarcimento o in sua sostituzione, con strabiliante eclettismo, per cui talvolta è deputato ad intendere un risarcimento, talvolta un indennizzo, ovvero un risarcimento plurifunzionale con effetto sanzionatorio .
Si è cominciato con l’art. 8, L. n. 604/1966, nel definire “risarcimento del danno” ciò che deve essere versato al lavoratore mediante una “indennità tra un minimo e un massimo…”. Nel comma 4, dell’art. 18, l’attribuzione diventa invece una “indennità risarcitoria”. Nel D.L.vo n. 23/15, è prevista poi all’art. 3, comma 1 e all’art. 4, una somma designata solo “indennità”, non più risarcitoria.
In realtà, prima della grande riforma dell’art.18 Stat. lav., proseguita con il D.L.vo n. 23/2015, l’interpretazione e quindi la natura delle precedenti tecniche di questo tipo utilizzate contro il licenziamento illegittimo poteva e può ritenersi più o meno assestata.
A) Infatti, quanto alla misura minima dell’indennità non inferiore alle cinque mensilità, essa veniva e viene ritenuta una vera e propria penale forfettaria insuscettibile di qualsiasi riduzione, con funzione punitiva dell’illecito nella parte eventualmente eccedente il danno effettivo da riparare; nel caso i cui invece l’importo del risarcimento è pari o superiore alle cinque mensilità di retribuzione, anche le “prime cinque” rimangono assorbite nel risarcimento complessivo, modificando la loro funzione in integralmente risarcitoria.
B) Per quanto riguarda l’indennità commisurata alle retribuzioni perdute dal giorno del licenziamento a quello della sentenza di reintegrazione, è prevalsa la conservata qualificazione espressa in termini di “risarcimento del danno”, sicché tale commisurazione viene considerata una presunzione relativa suscettibile di prova contraria da parte del datore di lavoro in relazione all’aliunde perceptum o percipiendum, quest’ultimo escluso per i licenziamenti vietati e orali. Tale “indennità” non può dunque essere intesa come una vera e propria penale forfettaria, proprio perché essa è suscettibile di aumenti o riduzioni, e quindi non è configurabile la funzione afflittiva in quanto non dovrebbe esserci una “eccedenza” dell’indennità rispetto al danno effettivo . Ma accade che venga trasformata nei fatti in sanzione da quell’orientamento giurisprudenziale restrittivo sull’ammissibilità della prova per presunzioni semplice in ordine al reperimento di altro reddito da parte del lavoratore – o della possibilità in tal senso usando l’ordinaria diligenza – nelle situazioni in cui trascorrono anni prima della reintegrazione. Qualche sentenza aveva provato a sostenere che si potesse presumere dopo un triennio che il lavoratore avesse reperito, o avrebbe potuto reperire con la normale diligenza, un’altra occupazione ; senonché tali pronunce erano contrastate da altre che invece pretendevano la prova diretta relativa alla situazione lavorativa coerente con la professionalità del lavoratore , o da altro orientamento, ancora più restrittivo, che riteneva inammissibili le richieste di ordine di esibizione al lavoratore della propria documentazione fiscale e la richiesta di assumere informazioni dalla Pubblica Amministrazione del lavoro, previdenziale e tributaria circa i rapporti di lavoro successivi al licenziamento .
Questo dimostra che, per trasformare la natura risarcitoria di una condanna in funzione afflittiva, sia sufficiente non ammettere una prova nel giudizio, ottenendo così l’effetto sanzionatorio tutte le volte in cui il reddito conseguito aliunde dal lavoratore si cumula con l’importo della retribuzione piena corrisposta a titolo di indennità risarcitoria, invece di essere da essa detratto. Basta poco, in definitiva, per reperire “nelle pieghe dell’ordinamento” una tecnica, qui processuale, per introdurre, in nome dell’effettività dei rimedi, una funzione afflittiva non espressamente prevista dalla norma. Si tratta di una tecnica giurisprudenziale analoga ad altre che, come vedremo trattando delle tutele contro l’esercizio illegittimo degli altri poteri datoriali, possono consistere, o nel prescindere dalla prova dell’an per quanto riguarda il danno, applicando erroneamente la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c., oppure nell’uso inappropriato delle presunzioni semplici.
Il che ripropone ancora una volta il dilemma se questo passaggio possa essere direttamente opera dell’interprete, o invece esigere, di volta in volta, un eventuale meditato intervento del legislatore o dell’autonomia collettiva.
C) L’interpretazione sembra assestata, specie dopo l’intervento della Consulta del 2018 , anche per quanto riguarda l’annoso problema, che aveva agitato dottrina e giurisprudenza, soprattutto prima della riforma della L. n. 108/1990, sulla natura giuridica, se risarcitoria o retributiva, delle somme dovute al lavoratore dal datore che non ottempera all’ordine di reintegrazione e poi risultava vittorioso nei successivi gradi di giudizio; qualificazione da cui dipende sia la detraibilità dell’aliunde, sia la ripetibilità di tali somme, sia, in definitiva, la loro funzione di misura compulsoria dell’inottemperanza dell’ordine di reintegrazione. La Consulta, rigettando la questione sollevata secondo cui sarebbe costituzionalmente obbligata la natura di mora accipiendi delle somme dovute dal datore dopo la sentenza di reintegra anche in caso di inottemperanza al provvedimento, ha infatti ribadito, anche in relazione al nuovo art. 18, comma 4, Stat. lav., che la natura risarcitoria di tali somme è conforme a Costituzione in quanto il datore di lavoro è inadempiente all’obbligo di fare, infungibile, di reintegrare il lavoratore, da cui deriva la conseguenza dannosa del lucro cessante, costituito dalle retribuzioni perdute. Si spiega così, sia la detrazione dell’eventuale aliunde perceptum e percipiendum, sia la ripetizione di tali somme da parte del datore di lavoro che ha “scommesso” sulla legittimità del licenziamento .
Sempre la sentenza della Corte costituzionale n. 86/2018, richiama anche l’orientamento della Cassazione che aveva comunque da tempo rigettato la tesi dell’applicabilità dell’art. 2126 c.c., in quanto tale norma riguarda esclusivamente un rapporto che abbia avuto materiale esecuzione .
I problemi interpretativi che invece ha sollevato il nuovo sistema di tutele per il licenziamento ingiustificato, soprattutto con il decreto n. 23/2015, e che ha dovuto affrontare la Corte costituzionale, riguardano essenzialmente la natura e la funzione del regime delle indennità previste per la tutela non reintegratoria.
In realtà gli interrogativi di ordine qualificatorio sulla natura di tale indennità erano già emersi all’epoca dell’art. 8, L. n. 604/1966, ma non avevano sollevato grandi dibattiti né particolari controversie giurisprudenziali ed erano, per così dire, finiti in una sorta di dimenticatoio, anche per lo scarso contenzioso, almeno giunto in Cassazione, sulla quantificazione tra 2,5 e 6 mensilità, in cui la convenienza della transazione rispetto alla causa era ed è palese. Era comunque prevalsa la qualificazione come penale ex lege sostitutiva di qualsiasi risarcimento e con funzione deterrente dell’illecito . Del resto, tale indennità era qualificata espressamente come “penale” anche nel suo prodomo, che può essere visto nell’accordo interconfederale sui licenziamenti individuali del 29 aprile 1965. Il legislatore del 1966 si era infatti ispirato proprio ad esso recuperando quanto avevano stabilito le parti sociali.
In effetti, nell’indennità ex art. 8, sono rinvenibili tutti i caratteri che abbiamo visto connotano tale qualificazione. Infatti, nonostante il riferimento testuale all’obbligo di “risarcire” il danno mediante tale indennità, non occorre alcuna prova di tale danno effettivo, che dunque può anche non esserci nel caso il lavoratore abbia reperito immediatamente altra migliore occupazione; né rileva la prova contraria di un tale eventuale aliunde per diminuire l’importo dell’indennità.
Inoltre, i criteri previsti per la sua determinazione guardano prevalentemente alle condizioni del datore di lavoro, come il criterio delle dimensioni e quello dei dipendenti, che operano congiuntamente onde poter meglio cogliere la sua reale capacità economica, valutando, ad esempio, il volume d’affari, le strutture, gli impianti; anche il riferimento alle condizioni delle parti, e non del solo lavoratore, può rilevare come ulteriore elemento di valutazione della capacità economica del datore di lavoro, potendo venire così in rilevo le situazioni di crisi dell’impresa o, in genere, la situazione patrimoniale e finanziaria anche del datore non imprenditore. Insomma, quasi tutto concorre a individuare la capacità economica del danneggiante, ossia, come si è detto, la capacità di “espiazione” dell’autore dell’illecito, secondo la logica sanzionatoria e non risarcitoria. Sempre alla medesima logica risponde il criterio del comportamento delle parti nel momento in cui si riferisce alla gravità e quindi al disvalore sociale e morale del fatto lesivo, mentre in una logica risarcitoria sarebbe difficile collegare la diversità di misura del risarcimento a ragioni che attengono al danneggiante .
Anche quando la L. n. 108/1990, ha aumentato il tetto dell’indennità fino a 10 o 14 mensilità, in base al superamento di dieci o venti anni di anzianità del lavoratore, lo ha subordinato comunque al presupposto del più elevato numero di dipendenti del datore, tanto che si è definita più che altro una disposizione sul campo di applicazione della tutela; si ripropone quindi un altro elemento che riguarda sempre le condizioni del danneggiante, di nuovo utilizzando, dunque, un criterio tipico delle tecniche punitive e non risarcitorie .
Quanto agli ulteriori criteri aggiunti dall’art. 30, comma 3, L. n. 183/2010 “dimensioni e condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento”, alcuni confermano i criteri tipici della tecnica punitiva sanzionatoria. La novità qui, però, risiede nel criterio che riguarda la “situazione del mercato locale”, con il quale viene data la possibilità al giudice di valorizzare, nella determinazione dell’indennità, la difficoltà, e quindi il tempo occorrente per il lavoratore per reperire altra occupazione, operando così un collegamento quantomeno presuntivo con il danno patrimoniale che il lavoratore potrebbe subire dal licenziamento ingiustificato; sicché, questo collegamento con il danno subito dal lavoratore a causa del licenziamento non esclude del tutto anche una, sia pur parziale, funzione risarcitoria in senso stretto dell’indennità.
Meno significativo in questo senso è invece il criterio dell’anzianità del lavoratore; ma comunque esso appare per la prima volta, perché in precedenza il legislatore aveva fatto sempre riferimento alla sola anzianità di servizio; quindi, la diversa formulazione del criterio può, sia pure più indirettamente, rappresentare anch’essa un collegamento con il danno patrimoniale in base alla presunzione semplice per la quale più alta è la età, maggiori sono le difficoltà di reperire un’altra occupazione rispetto ai lavoratori più giovani, e ciò sempre al fine di aumentare l’importo dell’indennità .
Così chiarito l’assetto interpretativo in ordine alla natura dell’indennità per il licenziamento ingiustificato prima delle riforme del 2012 e 2015, è accaduto che con la L. n. 92/2012, nel modificare l’art. 18, il legislatore, per la tutela indennitaria del comma 5, ha seguito “criteri in larga parte analoghi a quelli indicati in precedenza”, come si esprime la motivazione della sentenza della Consulta n. 194/2018. Anzi, sono stati accentuati i parametri sempre più estranei al danno subìto dal lavoratore ma maggiormente in grado, invece, di dare conto della effettiva solidità del datore di lavoro e quindi della sua reale capacità economica di subire condanne d’importo più o meno elevato .
Infatti: a fermo restando il numero dei dipendenti, al posto dei più generici criteri delle “dimensioni dell’impresa”, di cui all’art. 8, L. n. 604/1966, e delle “dimensioni dell’attività”, di cui all’art. 30, comma 3, L. n. 183/2010, è stato previsto quello più specifico delle “dimensioni dell’attività economica dell’impresa”; b non è stato recepito dell’art. 30 cit., l’altro elemento che, come si è visto, poteva avere valenza di criterio di riferimento al danno subito dal lavoratore, e cioè la “situazione del mercato del lavoro locale”; c il criterio delle “condizioni del lavoratore”, previsto dall’art. 30, ha subìto per così dire un “dimezzamento”, in quanto è stato sostituito con quello delle “condizioni delle parti”, per dare rilevanza anche a quelle del datore, in aggiunta, oltretutto, a quanto già desumibile dai due criteri dimensionali dei dipendenti e dell’attività; d anche il criterio aggiuntivo più rilevante, valido solo per il licenziamento per motivi oggettivi, e cioè le iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione, guarda, più che al danno effettivo, al comportamento delle parti, e quindi può essere ritenuto una specificazione di questo criterio già menzionato nel comma 5.
Coerentemente con le suddette indicazioni si è quindi ritenuto in dottrina che, nonostante la qualificazione, quasi tralaticia, come “risarcitoria”, l’indennità prevista dall’art. 18, comma 5, al pari dell’indennità per licenziamento ingiustificato di cui all’art. 8, L. n. 604/1966 e della indennità per il termine nullo, sia invece sganciata dalla prova di un danno effettivo, come confermato ulteriormente dall’essere “onnicomprensiva”, la cui funzione prevalente, se non esclusiva , è dunque quella sanzionatoria, in quanto è dovuta in ogni caso, quantomeno nella misura minima delle dodici mensilità, anche se il lavoratore ha reperito immediatamente dopo il licenziamento una occupazione migliore e più remunerativa della precedente.
Tutto ciò conferma che l’indennità ex comma 5 dell’art. 18 rimane caratterizzata dalla forte impronta di penale ex lege forfettaria, come lo era l’originaria indennità di cui all’art. 8, con prevalente connotazione punitiva dell’illecito e con scarsissima valenza risarcitoria del danno.
Sicché, il legislatore che ha messo mano alla storica riforma dei regimi di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo, non ha trovato di meglio che ritornare all’antico mutuando, quanto ai criteri, la tecnica del vecchio art. 8, L. n. 604/1966, limitandosi ad aggiungere un altro “strato”, costituito dall’aumento delle soglie minime e massime dell’indennità. Come in ogni stratificazione, emerge anche qui un errore di coordinamento, o una lacuna di collisione, in quanto non si è colto il rilievo ben diverso che assume ora quell’indennità, diventata ormai il regime ordinario di tutela generalizzato, per cui sarebbe stato necessario un adeguato sforzo di adattamento a questa nuova situazione; l’entità del fenomeno da regolare consigliava, infatti, l’introduzione di limiti alla discrezionalità del giudice nella scelta dei criteri e del “peso” da attribuire a ciascuno di essi, risultando a tal fine insufficiente, sia la labile differenziazione dalle parole “in relazione” riferita all’anzianità rispetto al “tenuto conto” per quanto concerne gli altri criteri, sia la previsione, quasi superflua, dell’obbligo di specifica motivazione sul punto, che diventa scarsamente efficace, in quanto censurabile in Cassazione solo attraverso le maglie strettissime del nuovo n. 5 dell’art. 360, c. c. . I criteri adottati per l’indennità dell’art. 8, L. n. 604/1966, erano adatti per quella specifica indennità, con quella limitata “forbice” da un minimo di 2,5 a un massimo di 6 mensilità. Nel caso del comma 5 dell’art. 18 Stat. lav., a fronte della quadruplicazione del limite minimo e del limite massimo, e della triplicazione della “forchetta” tra i due, si sono però lasciati pressocché inalterati i criteri e la discrezionalità del giudice previsti per la precedente indennità .
Il D.L.vo n. 23/2015, di fronte alle varie incertezze che venivano emergendo dall’applicazione del nuovo art. 18, ha inteso così dare attuazione, anche in riferimento al comma 5, alla precisa direttiva della legge delega, che obbligava il Governo ad adottare un decreto legislativo nel rispetto, tra gli altri, del criterio direttivo della “previsione di un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio” art. 1, comma 7, lett. c, L. 10 dicembre 2014, n. 183. Pertanto, è stata la volontà parlamentare, e non il governo di allora, a volere il costo certo per il licenziamento ingiustificato.
5. La sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale.
In questo ginepraio di stratificazioni di tutele si è imbattuta la Corte costituzionale con la sentenza n. 194/2018, finendo anche lei per essere avvinta nelle sue spire.
La Corte, infatti, ha aggiunto un ulteriore “strato” a quello solo tre mesi prima apposto dal decreto dignità, con il quale era stato lasciato inalterato il criterio di calcolo dell’indennità ma si era provveduto all’incremento da 6 a 36 mensilità della soglia minima e massima. La Consulta non ha toccato questo incremento, ma ad esso ha sovrapposto una norma priva di quei criteri che solo tre mesi prima invece il legislatore aveva conservato.
Riemergono così ancora una volta le “lacune di collisione”, o le vere e proprie irrazionalità, derivanti dal fenomeno della stratificazione, questa volta anche per mano della Consulta, poiché è ragionevole dubitare che il legislatore del decreto dignità non avrebbe elevato il tetto massimo dell’art. 3, comma 1, portandolo a 36 mensilità se avesse saputo che, per effetto del successivo intervento della Corte, la determinazione dell’importo nell’ambito di una forchetta da 6 a 36 mensilità sarebbe stata affidata alla pressoché totale discrezionalità del giudice, o comunque sarebbe stata svincolata dal criterio certo dell’anzianità, sulla cui garanzia, si deve presumere, avesse invece deciso per l’incremento così elevato dell’indennità .
Come è noto, la Corte ha ritenuto incostituzionale il meccanismo di calcolo automatico di determinazione dell’indennità sulla base dell’anzianità, in quanto, in primo luogo, non consentiva una adeguata personalizzazione del danno effettivo subìto dal lavoratore con il licenziamento, impedendo un adeguato ristoro. Per raggiungere questa finalità, la Corte prende due strade o adotta una duplice tecnica.
La prima tecnica si rinviene nel dispositivo della sentenza, mediante il quale viene introdotta nell’ordinamento una norma senza alcun criterio alla cui stregua il giudice sia vincolato per determinare la misura dell’indennità tra un minimo e un massimo da 6 a 36 mensilità, consentendogli quindi di “fare da sé” quella personalizzazione del danno effettivo, ritenuta costituzionalmente obbligata anche nella modalità mediante la quale deve essere realizzata, cioè per mezzo della discrezionalità del giudice, che evidentemente deve essere la più ampia possibile, come espressamente affermato dalla stessa Consulta al punto 11, secondo cui “non possono che essere molteplici i criteri da offrire al prudente apprezzamento del giudice”.
La diatriba se il testo della norma risultante dal dispositivo della sentenza della Corte costituzionale possa o no essere integrato con le parole usate nella motivazione, qui neppure si pone perché, ammesso pure sia consentita una tale integrazione, non si saprebbe neppure quale frammento di norma utilizzare, tratto dalla motivazione, che abbia la sufficiente precisione, per integrare il dispositivo .
La norma che quindi è scritta nei nostri codici e che va applicata recita che il giudice condanna il datore ad una indennità in misura non inferiore a 6 mensilità e non superiore a 36 mensilità. Altro non c’è scritto; poi la parola passa al giudice che ha quindi mano libera. La conferma risiede nella non censurabilità in Cassazione della scelta dei criteri adottati dal singolo giudice e dal peso da attribuire a ciascuno di essi, per cui non si vedono limiti realmente stringenti oltre quelli della misura minima e massima stabiliti nel suddetto dispositivo . Sul punto è bene non riporre eccessive illusioni, se è vero che la Cassazione ritiene non censurabile in sede di legittimità perfino il giudizio di proporzionalità relativo al carattere notevole dell’inadempimento, ai fini della giustificazione del licenziamento, considerandolo “istituzionalmente rimesso al giudice di merito” .
Una simile norma, risultante dal dispositivo della sentenza, sembra dunque rappresentare il prodotto tipico dell’età della giurisdizione a cui ben si attaglia la metafora del diritto liquido , caratterizzato dalla massima esaltazione della discrezionalità del giudice nella diversificazione della sanzione.
È stato scritto che il principio enunciato dalla Consulta costituisce una “pietra miliare” , al fine di evitare la violazione del principio di uguaglianza per ingiusta omologazione di situazioni diverse.
Bisognerebbe allora capire per quale motivo, se esiste questa necessaria discrezionalità giudiziaria, che sarebbe costituzionalmente obbligata per il necessario rispetto del principio di uguaglianza, non siano mai sorti altrettanti dubbi di costituzionalità in oltre quaranta anni in relazione a quella formidabile norma di omologazione sanzionatoria costituita dall’automatismo previsto dall’originario art. 18 Stat. lav., che non lasciava al giudice alcuna discrezionalità, vincolandolo sempre ad applicare il massimo della sanzione, appunto omologando iniquamente situazioni tra loro molto differenti, come il più odioso licenziamento discriminatorio, con quello sostanzialmente giustificato, per esempio, da un reato commesso dal dipendente in azienda, ma illegittimo per un banale vizio formale o procedimentale.
L’altra strada, o tecnica, seguita dalla Corte cost. n. 194/2018, è rinvenibile invece nella motivazione, ed è qui che il tema si riallaccia prepotentemente a quello che stiamo esaminando sulla natura dell’indennità per il licenziamento ingiustificato. Infatti, nella motivazione, la Corte, nel tentativo di suggerire al giudice i possibili criteri per la determinazione di tale indennità, prende come riferimento proprio quelli previsti dall’art. 8 della L. n. 604/1966 e dall’art. 18, comma 5, affermando espressamente che, prima dell’entrata in vigore del d. lgs. D.L.vo n. 23/2015, il legislatore, proprio mediante i criteri previsti da tali norme, aveva invece “correttamente individuato i fattori che determinano il pregiudizio prodotto nei vari casi di licenziamento ingiustificato punto 11, che “incidono sull’entità del pregiudizio causato dall’ingiustificato licenziamento e conseguentemente sulla misura del risarcimento” punto 11.
La Corte, dunque, non si avvede che quelle indennità da lei prese a modello di riferimento, o meglio, i loro criteri, che dovrebbero garantire il ristoro e la personalizzazione del danno effettivamente subito dal lavoratore, e quindi assicurare la costituzionalità del sistema rimediale, hanno solo in minima parte quella funzione risarcitoria, come sopra abbiamo ampiamente illustrato.
Anzi, paradossalmente, se quei criteri hanno una funzione di personalizzazione, essi vanno nella direzione esattamente opposta a quella immaginata dalla Corte, in quanto sono quasi tutti rivolti, come è tipico delle sanzioni, e come si è visto, alla potenzialità economica del danneggiante e alla sua capacità di “espiazione”. Paradossalmente, gli unici criteri che potrebbero avere più specifica attinenza con il danno subito dal lavoratore, previsti dall’art. 30, comma 3, L. n. 183/2010, concernenti la situazione del mercato del lavoro locale, sono stati ignorati dalla sentenza della Consulta.
Questa discrasia complessiva della motivazione è forse il punto più discusso e criticato di tale sentenza . Infatti, se la gran parte dei criteri indicati dalla stessa Corte costituzionale non rispondono ad una logica risarcitoria e quindi non consentono il ristoro al pregiudizio effettivamente subito dal lavoratore e ancor meno adeguato, non solo cade buona parte dell’architettura della motivazione, ma ciò può provocare anche alcuni esiti paradossali.
Ad esempio, il giudice che deve applicare fedelmente il testo della norma, la quale non prevede per lui criteri vincolanti, ragionevolmente, per avere una qualche indicazione interpretativa, se segue il percorso argomentativo nella motivazione circa la costituzionalizzazione obbligata del risarcimento adeguato e personalizzato dei danni effettivi subiti dal lavoratore dal licenziamento, dovrebbe poi ignorare buona parte di quei criteri suggeriti dalla stessa Corte, ed invece fare applicazione dei principi generali di diritto comune sul risarcimento del danno, che invece gli consentono di perseguire gli obiettivi enunciati dalla Corte, argomentando proprio dai ripetuti richiami della sentenza a tale personalizzazione del danno e al ruolo indispensabile della discrezionalità del giudice, qui limitata solo dalla soglia minima e massima . Né si vede come possa essere censurabile in Cassazione una sentenza del genere, in assenza di limiti previsti dalla norma che risulta dal dispositivo della Consulta. Il che evoca l’immagine un po’ inquietante dell’apprendista stregone, in quanto se si sostiene, come pure è accaduto , che tutti i vari criteri citati nella motivazione “sono ormai parte del contenuto della legge”, si corre il rischio che una simile norma, dalle sembianze di un “ircocervo”, nasca incostituzionale per violazione dell’obbligo, ritenuto dalla stessa sentenza costituzionalmente imposto, del risarcimento adeguato e personalizzato a seguito di licenziamento ingiustificato.
Altro profilo di incostituzionalità della norma creata dalla Consulta, che è stato ipotizzato da Fabrizio Amendola, giudice di Cassazione, nel suo bell’articolo sulla Rivista Italiana di diritto del lavoro , riguarda il metodo della “manipolazione” del testo di legge; l’Autore si interroga se il meccanismo di tutela risultante dall’amputazione subìta dal comma 1, dell’art. 3, D.L.vo n. 23/2015, dia luogo ad una disciplina sostanzialmente nuova, estranea all’originaria ratio ed ignota alla volontà di chi aveva esercitato quella potestà legislativa; ciò tanto più che, come si è visto, la volontà parlamentare si era espressa in una legge delega che obbligava il governo ad adottare un decreto legislativo nel rispetto di una ben precisa direttiva sul punto, e cioè che prevedesse “un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio”. Non pare dubbio che la norma creata dal ritaglio della Corte vada nell’esatta direzione opposta; né pare dubbio che se il Governo delegato avesse adottato una simile norma, si sarebbe sollevata la questione di violazione dell’art. 76 Cost., sull’eccesso di delega. Il che alimenta quel filone di pensiero sulla attitudine giusdicente di questa sentenza, nonché sulla eccedenza del discorso politico e sulla sua distanza dall’assetto regolativo approvato e votato da chi esercita la funzione di formare le leggi .
Altro possibile paradosso sistematico discende proprio dall’affermazione di principio della Consulta, per cui, se fosse costituzionalmente obbligato il risarcimento adeguato e personalizzato del danno da licenziamento, sorgerebbe il sospetto dell’incostituzionalità dell’art. 18, comma 5 Stat. lav., in quanto i criteri per la determinazione della relativa indennità rispondono solo in minima parte ai suddetti requisiti.
Ma c’è di più: è stata prospettata l’incostituzionalità della stessa norma creata dalla Consulta proprio per violazione del principio di uguaglianza giacché essa può condurre, per casi identici, ad una liquidazione dell’indennità pari a sei mensilità oppure una indennità sei volte superiore a seconda dell’orientamento personale del giudice . La Corte ha voluto evitare la violazione del principio di uguaglianza causata dall’omologazione di casi differenti, ma avrebbe introdotto un’altra diseguaglianza/ingiustizia, creando potenziali discriminazioni tra lavoratori che si trovano nelle stesse condizioni in “conseguenza dell’incontrollato soggettivismo giudiziario” . Il paradosso, che si aggiunge a paradosso, è che poi la stessa Consulta userà proprio quest’ultimo argomento per dichiarare l’incostituzionalità dell’aggettivo “manifesta”, in relazione all’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per motivo oggettivo sentenza n. 125/2022, e del “può”, sempre riferito a tale fattispecie sentenza n. 59/2021, appunto perché la loro indeterminatezza causerebbe ingiustificate differenze di trattamento.
Poi c’è il secondo argomento utilizzato dalla Consulta: la Corte ritiene che sia costituzionalmente obbligata anche un’altra caratteristica dell’indennità per il licenziamento ingiustificato, quella della adeguata dissuasione nei confronti del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente punto 11, per cui la liquidazione legale forfettizzata, in relazione all’unico parametro prefissato dell’anzianità di servizio, contrasterebbe con tale principio perché non sarebbe in grado di garantire questo effetto. È interessante notare che nell’ordinanza di rimessione la carenza di deterrenza era collegata alla inadeguatezza delle soglie più basse dell’indennità. Senonché la Corte ha fatto salva tale soglia minima, evidentemente ritenendo che anch’essa possa garantire tale funzione. Per la Corte è solo il meccanismo dell’aumento dell’indennità basato sulla sola crescita dell’anzianità che “è suscettibile di minare in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro”.
Sotto questo aspetto l’argomentare della Corte si fa più coerente con la natura di penale legale dell’indennità in questione, anche se la sentenza non ritiene di esplicitare più di tanto le ragioni per cui la funzione dissuasiva sarebbe assicurata dalla nuova norma da lei creata. Ma a ben guardare la ragione sembra essere una sola: l’alto livello di discrezionalità così conferito al giudice e quindi la totale incertezza ex ante del costo del licenziamento illegittimo. Infatti, una volta che la sentenza ha fatto salva la soglia minima, si può affermare che l’effetto di deterrenza sia assicurato, al massimo livello di effettività, proprio perché la disciplina lascia al giudice un amplissimo spazio di discrezionalità valutativa nel decidere la misura dell’indennità tra un minimo di sei mensilità e un massimo di trentasei mensilità di retribuzione, per cui le parti del processo non sono in grado minimamente di immaginare come si orienterà il giudicante.
Qui, dunque, la deterrenza è assicurata dalla incertezza e imprevedibilità della decisione giudiziaria, “dal guizzo del magistrato decisore” , con praticamente inesistenti possibilità di controllo di legittimità da parte dell’organo nomofilattico.
Pertanto, nella logica della sentenza, deve essere completamente ribaltata l’opzione politica parlamentare del legislatore di una previsione di un indennizzo economico “certo”, come recita la legge delega.
Di questo aspetto si sono resi subito conto coloro che hanno esaltato la sentenza n. 194 , in quanto hanno colto la “straordinaria leva” di deterrenza proprio di questo elevato grado di incertezza, creato dalla Consulta quale “fattore, vessillo, di resistenza nei confronti della razionalità proprio degli operatori dell’economia globalizzata” . E così la certezza del diritto, che dovrebbe essere un valore fondamentale dell’ordinamento, diventa un disvalore, un ostacolo all’effettività dissuasiva dei rimedi. È invece il soggettivismo giudiziario, l’imprevedibilità della decisione, che garantirebbe questa deterrenza, anche nei suoi eccessi o forse proprio per il timore dei suoi eccessi. Si potrebbe sinteticamente commentare: “troppa certezza nuoce alla deterrenza”. Si può non essere d’accordo ma, come disse l’Amleto di Shakespeare, “c’è comunque del metodo in questa follia” .
Al riguardo è interessante ricordare l’ammonimento di Edoardo Ghera nel suo saggio del 1979 sulle tecniche sanzionatorie, secondo cui “prima esigenza o garanzia minima da soddisfare se si vuole evitare che la discrezionalità del giudice degeneri in arbitrio” è costituita dalla rigorosa certezza ex ante delle sanzioni che il giudice avrà il potere di irrogare.
Come si è visto, a partire da tale sentenza, anticipata dal decreto dignità, è iniziata una nuova stagione del diritto del lavoro, in controtendenza rispetto a quella delle riforme degli anni 2012-21017, e in coincidenza/conseguenza dei nuovi equilibri politici venutisi a determinare con le elezioni del 2018.
6. Il “campionario” delle tecniche di tutela contro le discriminazioni.
Una menzione a parte meritano le tecniche di tutela contro le discriminazioni, in ragione della loro varietà, che combinano tecniche di diritto comune sostanziale e processuale e di diritto speciale.
Vi sono le tecniche di tutela inibitoria e ripristinatoria del tutto simili a quelle in materia antisindacale per le discriminazioni collettive art. 37, D.L.vo n. 198/2006, sia per quelle in ragione del sesso relative all’assunzione, come l’art. 38, D.L.vo n. 198/2006, che prevede l’ordine della cessazione del comportamento illegittimo o la rimozione degli effetti, sia per le discriminazioni per motivi razziali, etnici e religiosi, di convinzione personale, di età, di handicap, di orientamento sessuale.
Il legislatore non le ha ritenute comunque “autosufficienti”; si spiega così la variegata gamma di sanzioni: di natura penale, sia in funzione di misura compulsoria indiretta art. 38, comma 4, D.L.vo n. 198/2006, sia direttamente punitive della condotta; sanzioni civili, per i trattamenti economici collettivi discriminatori per ragioni sindacali; sanzioni amministrative, consistenti nella revoca di benefici ed esclusione da appalti pubblici per le discriminazioni in ragione del sesso.
A questo autentico campionario di tutele di diritto speciale contro le discriminazioni, si aggiungono ancora quelle di diritto comune. Il rimedio fondamentale rimane quello della nullità ex art. 15, comma 1, Stat. lav.
Infine, resta sempre anche il rimedio risarcitorio per equivalente, che si aggiunge a quello della nullità.
Questa funzione dissuasiva del risarcimento in materia di discriminazione è stata ribadita dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione 21 luglio 2021, n. 20819, che ha riconosciuto il danno non patrimoniale a favore del sindacato che aveva agito iure proprio nel procedimento ex art. 28, D.L.vo 1° settembre 2001, n. 150, distinguendolo però dai danni punitivi, in ragione del fatto che la discriminazione collettiva rileva anche in assenza di un soggetto immediatamente identificabile.
Come si può notare, contro le discriminazioni l’ordinamento, nelle sue fonti multilivello, ha spiegato un sistema rimediale completo di tutte le varie tecniche di tutela, tanto da costituire un autentico campionario in tal senso, ivi comprese le agevolazioni sul piano dell’onere della prova della discriminazione, che continua a rimanere il “tallone d’Achille” di tali tutele. Peraltro, questo “non arretramento” del legislatore nella materia di tutele antidiscriminatorie, rispetto a quanto accaduto per altri diritti dei lavoratori, primi tra tutti quelli riguardanti il licenziamento, stimola riflessioni di carattere più generale circa una linea di tendenza, non solo italiana ma anche a livello europeo, di spostare attenzione e protezione su temi relativi a parità in tutti i sensi e alle discriminazioni, piuttosto che sulle tutele che potremmo definire tradizionali del lavoratore, relativamente ai suoi interessi fondamentali connessi al rapporto di lavoro sotto il profilo economico e della stabilità dell’occupazione.
Su di un piano applicativo, occorre evidenziare che da questa stratificazione di tutele possono scaturire, come al solito, anche effetti poco coerenti.
È emblematica a tal proposito una recente pronuncia del Tribunale di Roma . In quel caso il giudice aveva accertato il carattere discriminatorio dell’esclusione da una procedura selettiva per l’assunzione di assistenti di volo di due lavoratrici in gravidanza. Il Tribunale ha coerentemente applicato l’art. 38, L. n. 198/2006, ordinando la cessazione del comportamento illegittimo individuato appunto in tale esclusione. Il Tribunale ha anche riconosciuto il risarcimento del danno pari a 15 mensilità, motivandolo, sia con la perdita di chance, tenuto conto della retribuzione che la candidata avrebbe percepito durante il periodo di astensione per la maternità, sia con la valenza “dissuasiva”, perché tale risarcimento eliderebbe il vantaggio che la società si sarebbe assicurata evitando l’assunzione di assistenti di volo in gravidanza e quindi inutilizzabili per tale periodo. Senonché l’art. 38, comma 1, L. n. 198/2006, oltre al rimedio inibitorio-ripristinatorio, prevede sì il risarcimento del danno anche non patrimoniale, ma espressamente ammettendolo solo “nei limiti della prova fornita”. Nell’esempio qui considerato non era stata fornita alcuna prova del danno, in quanto si trattava solo di concorrere ad una procedura di selezione; infatti, lo stesso Tribunale fa riferimento esclusivamente ad una perdita di chance, anch’essa peraltro sfornita di prova in ordine alle probabilità o percentuali di un esito favorevole per la ricorrente se le avessero consentito di partecipare. Ma c’è di più. Il Tribunale, come si è visto, ha anche ordinato la cessazione del comportamento illegittimo consistente nell’esclusione della candidata, con la conseguenza che il datore è stato obbligato a riammettere la ricorrente alla procedura, perché oltretutto, in caso di inottemperanza, è prevista anche la misura compulsoria indiretta di carattere penale. Sicché in quel caso viene meno anche il danno da perdita di chance, in quanto, in base all’ordine del giudice, la candidata potrà far valere tutte le sue, appunto, chance.
E allora viene da chiedersi che tipo di danno è quello liquidato dal Tribunale. Il provvedimento lo qualifica come “dissuasivo”, ma la norma lo ha voluto escludere espressamente, visto che altro significato non possiamo dare a quella che sarebbe altrimenti una ridondanza normativa, e cioè l’ammissibilità del risarcimento solo nei limiti della prova fornita. Quindi in questa situazione il giudice ha creato e applicato non un risarcimento, ma una sanzione non prevista dalla norma, perché ha voluto punire il vantaggio che la società avrebbe ottenuto evitando l’assunzione di una assistente di volo che non sarebbe stata utilizzabile per alcuni mesi.
Il caso è significativo perché mostra come, dietro la copertura della c.d. polifunzionalità del risarcimento, si celino poi veri e propri rimedi sanzionatori non previsti dall’ordinamento ma frutto di creazione giurisprudenziale. Qui oltretutto neppure ricavati “nelle pieghe dell’ordinamento”, ma in aperta violazione della norma che prevede testualmente un solo tipo di risarcimento, quello nei limiti della prova fornita.
Sezione IV – Le forme di tutela di diritto comune contro l’esercizio illegittimo dei poteri del datore di lavoro.
1. Poteri organizzativi del datore e tutele di diritto comune: l’effettività dei rimedi tra invalidità e/o illiceità.
Le tutele nei confronti dell’esercizio illegittimo degli altri poteri del datore di lavoro diversi dal licenziamento, variamente denominati di amministrazione del rapporto , di gestione, o organizzativi in senso lato , sono affidate prevalentemente al diritto comune, tranne alcuni rimedi speciali, esaminati in precedenza, posti a tutela di particolari interessi del lavoratore, come, ad esempio, le sanzioni penali per la violazione dei limiti ad alcuni poteri di controllo artt. 2, 5, 6 Stat. lav. Prevalgono dunque le tutele di condanna all’adempimento, con i ben noti limiti della incoercibilità, quella risarcitoria-compensativa o per equivalente e quella costitutiva, di invalidazione degli atti illegittimi del datore di lavoro, che li rende improduttivi di effetti, con tutte le relative conseguenze, che vanno dall’applicazione della mora credendi, all’autotutela o all’eccezione di inadempimento.
L’aver ricondotto l’esercizio dei poteri del datore di lavoro integralmente nell’ambito del contratto pone però il problema di individuare, laddove non siano previste regole speciali come per il licenziamento, in che modo operino i limiti a tali poteri nel contesto contrattuale.
Punto di partenza obbligato è la tesi, ampiamente condivisa , secondo cui l’esercizio del potere del datore al di là dei limiti posti dalla legge «comporta l’inidoneità dell’atto a produrre l’effetto a cui tende» , trattandosi di un potere non riconosciuto dall’ordinamento. Qui, dunque, saremmo di fronte alla tecnica della invalidazione che impone non un “obbligo” ma un “limite” all’attività e quindi al potere privato del datore di lavoro.
Senonché questa pur utilissima ricostruzione di tali violazioni esclusivamente in termini di atto nullo per contrarietà a norma imperativa, se consente l’autotutela o l’applicazione della mora credendi, non è però in grado di spiegare come si possa conciliare con la misura di carattere riparatorio derivante dal medesimo atto inefficace. Non si tratta solo di questione sistematica, ma essa rileva sul piano dell’effettività dei rimendi in quanto potrebbe lasciare insoddisfatta l’esigenza di riparare le conseguenze dannose provocate dall’esecuzione materiale dall’atto privo di effetti.
Questo non significa che le invalidità demolitorie non possono essere “quasi satisfattive” nei confronti dell’esercizio illegittimo di alcuni poteri. Ad esempio, nel caso del potere disciplinare, la nullità della sanzione conservativa illegittima probabilmente si rivela rimedio effettivo e sufficiente.
Anche in relazione all’esercizio dei vari poteri di controllo probabilmente l’invalidità si mostra spesso satisfattiva dell’esigenza effettiva di tutela, soprattutto se si considera che dalla nullità deriva l’inutilizzabilità, specie sul piano disciplinare, delle informazioni acquisite illecitamente, a cui si aggiunge la possibilità del lavoratore di sottrarsi al controllo illegittimo senza subire conseguenze disciplinari, come nel caso delle visite personali effettuate in violazione dei limiti previsti dall’art. 6 Stat. lav. Conferma questa impressione la constatazione del contenzioso giudiziario assai limitato, tenuto conto che ormai l’orientamento della giurisprudenza è consolidato nel ritenere legittimo il controllo effettuato tramite agenzie investigative sulle condotte eventualmente fraudolenti tenute dal lavoratore durante le assenze per malattia o per permesso con finalità di assistenza.
Non cambia di molto la situazione per quanto concerne l’art. 4 Stat. lav., che pure è norma al centro dell’attenzione in considerazione delle enormi potenzialità di controllo che offrono le tecnologie digitali, i lavori tramite piattaforma e il diffondersi delle modalità lavorative da remoto, e quindi “a distanza” e mediante “strumenti” . Anche qui, infatti, la funzione sostanzialmente satisfattiva della invalidità degli atti compiuti in violazione dei limiti imposti dall’uso delle apparecchiature, si ottiene, sostanzialmente, dalla inutilizzabilità dei risultati di tali controlli da parte del datore di lavoro, con conseguente illegittimità dei provvedimenti disciplinari conseguenti. È noto il paradosso al riguardo per cui spesso l’effetto sostanziale della tutela della privacy del lavoratore non si realizza con l’applicazione delle regole procedimentali per l’esercizio legittimo di tali poteri, bensì proprio dalla loro violazione, che consente così al lavoratore di invocare l’inutilizzabilità disciplinare dell’informazione di un suo illecito .
Ai fini dell’effettività della tutela assicurata dalla invalidità, rileva anche la possibilità di sottrarsi, in via di autotutela, al controllo a distanza non consentito; il che assumerà sempre maggiore rilevanza nelle modalità lavorative da remoto con le relative connessioni audio-video; ad esempio, se il collegamento video non rientra tra gli strumenti per lo svolgimento della prestazione, o se non serve per renderla più efficiente , il lavoratore potrebbe rifiutare la pretesa del datore di tale modalità di collegamento, in aggiunta a quello vocale e/o scritto.
In ogni caso, anche in relazione all’art. 4 è dato riscontrare “come piuttosto infrequente che il lavoratore, oltre ad impugnare il provvedimento disciplinare e a chiedere la rimozione, chieda anche il risarcimento del danno – in quei casi ovviamente non patrimoniali – per violazione delle regole sulla privacy” .
La situazione cambia invece, in termini di effettività dei rimedi, al cospetto di quei poteri gestionali del datore, il cui esercizio illegittimo è potenzialmente più dannoso per il lavoratore, in relazione ai quali quindi assume maggiore rilevanza la tutela risarcitoria. Si tratta dei poteri modificativi di due aspetti del rapporto che possono coinvolgere importanti interessi del lavoratore anche non patrimoniali e addirittura esistenziali, e cioè il mutamento di mansioni non consentito e quello del luogo di lavoro ingiustificato, quindi demansionamento e trasferimento illegittimo.
È pur vero che quando questi atti giuridici vietati sono colpiti da sanzione reale rimangono improduttivi di effetti, sicché il lavoratore può coniugare la tutela giurisdizionale alla autotutela individuale conservativa; ma, come vedremo, l’autotutela è per definizione rischiosa per il lavoratore poiché si trova esposto al licenziamento.
Pertanto, la tecnica dell’invalidazione nei confronti dei suddetti poteri può rivelarsi rimedio scarsamente effettivo, non solo a dissuadere il datore di lavoro dal loro compimento ma, inoltre, perché di per sé non è fonte di risarcimento dei danni che abbia provocato l’esecuzione materiale dell’atto privo di effetti, in assenza di un inadempimento e quindi di un illecito contrattuale.
La giurisprudenza sul punto sembra non porsi eccessivi problemi, oscillando tra la qualificazione in termini di invalidità o illiceità, oppure sovrapponendole, senza particolari approfondimenti. Ad esempio, le Sezioni Unite del 2006, che hanno rigettato la tesi del danno in re ipsa per il demansionamento , hanno apoditticamente ritenuto che si sia in presenza della violazione di un obbligo divieto di demansionamento, per cui “il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall’art. 1218 c.c.” .
Di qui lo sforzo di parte della dottrina di dimostrare che invalidazione e risarcimento sono rimedi tra loro non del tutto inconciliabili . Si è così tentato di recuperare la fattispecie risarcitoria attribuendo alle norme che limitano l’esercizio di questi poteri natura ancipite: non solo limite legale all’esercizio di tale potere, ma anche obbligazione di non fare gravante sul datore di lavoro e consistente nel non adibire il lavoratore a mansioni appunto non consentite o di non trasferirlo senza la causale giustificativa prevista dalla norma . In tal modo, l’attuazione di fatto del provvedimento illegittimo adottato senza rispettare tali regole costituisce “anche” inadempimento contrattuale, consistente in un fatto positivo compiuto in violazione di un divieto , con conseguente diritto al risarcimento dei danni comprovati.
2. La tutela risarcitoria di diritto comune e le tendenze a trasformarla in sanzione afflittiva.
A proposito della tutela risarcitoria rimane ancora attuale la constatazione di Ghera nel 1989 sull’ineluttabilità del ricorso a tale strumento a fronte delle incoercibilità degli obblighi di fare e di non fare infungibili, anche di quelli introdotti con la tecnica della limitazione dei poteri.
Si è assistito così a una vera e propria “rincorsa” al risarcimento del danno, alle volte connotata sapientemente da intenti speculativi per ottenere ingenti risarcimenti, agevolati dal fatto che in un rapporto di durata si verificano illeciti permanenti, come il demansionamento o il trasferimento illegittimo, in cui la sindrome depressiva reattiva a situazione di lavoro sembra diventata ormai un carattere antropologico dell’italiano medio.
Del resto, si tratta di una tendenza di portata più generale, in cui, a fronte del noto fenomeno di costituzionalizzazione del diritto privato che sembrava accentuare l’esigenza di tutele specifiche , è stata crudelmente richiamata la “inestinguibile miseria del diritto” che tende a monetizzare qualsiasi interesse, in sintonia con il modello consumistico di soddisfazione dei bisogni attraverso il mercato.
Anche nel diritto del lavoro alle volte è stata ideologicamente bistrattata la preferenza per il rimedio risarcitorio, ritenuta una mercificazione della lesione dei diritti esistenziali. Questa concezione sembra trascurare che il lavoratore è anche necessariamente un consumatore e, dunque, cumula in sé entrambe le posizioni di debolezza quale social-tipo immerso nella società appunto consumistica ed edonistica , secondo la profezia di Kahn Freund che aveva visto nel lavoratore il soggetto più debole anche come cittadino .
Quello che è interessante esaminare è piuttosto un altro aspetto, riguardante alcune tendenze della giurisprudenza a favore del rimedio risarcitorio anche in funzione punitiva dell’illecito o comunque di una connotazione sanzionatoria, mediante varie tecniche, che vanno dall’uso inappropriato delle prove per presunzioni, o della liquidazione equitativa o direttamente mediante la teoria del danno in re ipsa.
Orientamenti del genere emergono soprattutto ogni qualvolta il giudice ha la sensazione che il risarcimento, nei limiti della prova fornita del danno, non sia sufficiente a “ripagare” il mal fatto . Questa concezione nasce, come si è visto, dalla più generale precomprensione secondo cui, solo attribuendo alla responsabilità civile una funzione sanzionatoria che la esacerbi oltre il punto di ristoro del danno, essa possa svolgere una funzione di prevenzione. A una simile impostazione è stato opposto che dovrebbe essere la minaccia dell’obbligazione di risarcimento del danno, quale che ne sia il contenuto, ad esercitare funzione preventiva .
Il che peraltro si verifica, con una sorta di movimento a ritroso, anche quando la giurisprudenza non reputa adeguata la sanzione prevista dalla norma, per cui la trasforma in risarcimento, o vi aggiunge una componente di questo tipo, a fini dissuasivi, come si è visto, ad esempio, a proposito della sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale.
Emblematici, della suddetta tendenza ad abbandonare il terreno del risarcimento per entrare nel campo delle sanzioni afflittive, sono alcuni orientamenti giurisprudenziali soprattutto in materia di risarcimento del danno non patrimoniale da demansionamento . Varie sono le tecniche utilizzate in tal senso. Vi è quella che utilizza la norma sulla liquidazione equitativa del danno, come una sorta di penale, svincolata dalla esistenza e la prova di un danno effettivo, mentre l’art. 1226 c.c. non dovrebbe essere impiegato per liquidare risarcimenti di danni indimostrati, ma solo per quelli per cui sia impossibile provare il “preciso ammontare”, come sosteneva Carnelutti quando affermava che, nonostante l’improprietà della formula dell’art. 1226 c.c. – che ha usato la parola “danno” invece di “risarcimento” – la “valutazione” equitativa del giudice non sta nell’ammettere l’accertamento di un danno non provato, ma il risarcimento di un danno “non estimabile” . Mentre non sono poche le sentenze che, in assenza di una comprovata lesione del valore della professionalità, applicano “equitativamente” il criterio della doppia retribuzione per ogni mese di demansionamento; criterio, questo, che addirittura la Cassazione ritiene incensurabile in sede di legittimità .
La tecnica più utilizzata per transitare surrettiziamente dal risarcimento alla sanzione sembra però essere quella di un uso strumentale delle presunzioni semplici o giurisprudenziali, mediante le quali prescindere dalla prova di un danno effettivo. Anche qui occorre intendersi: si può anche convenire con l’idea che, vista la difficoltà della prova del danno, in particolare qui del demansionamento, si ritenga più opportuno introdurre una penale. Ma si ritorna al solito problema: dovrebbe essere il legislatore a stabilirlo e non il giudice. Nella sostanza, l’idea del danno in re ipsa in relazione al demansionamento che periodicamente si riaffaccia in giurisprudenza, nonostante la sua negazione da parte delle Sezioni Unite del 2006 e, in modo più ambiguo, del 2009 , rappresenta uno degli esempi più evidenti di come la giurisprudenza assegni al risarcimento la funzione di punizione dell’illecito e non la riparazione del danno, che potrebbe essere del tutto assente. Infatti, l’effettiva obsolescenza professionale non deriva automaticamente dallo svolgimento di mansioni non consentite, perché, se così fosse, si “dovrebbe assurdamente affermare una sopravvenuta parziale inidoneità professionale ogni qual volta il rapporto resta legittimamente sospeso per un consistente periodo ad es. per malattia” . Di qui l’uso strumentale delle presunzioni che, al fine di recuperare l’idea del danno in re ipsa, utilizzano lo stesso illecito come fatto indiziante, grave, preciso e concordante, ai sensi dell’art. 2729 c.c., per risalire al fatto ignoto. È stato invece correttamente escluso il risarcimento da altre sentenze in casi in cui non erano stati neppure allegati i fatti dai quali si potesse evincere che si trattasse di una professionalità contraddistinta “da conoscenze teoriche e pratiche suscettibili di rapida evoluzione” o “la necessità di un continuo esercizio al fine di impedire il verificarsi di non più colmabili gap professionali” .
Né quella particolare modalità di demansionamento costituita dalla inutilizzazione del lavoratore, può essere considerata fattispecie che giustifica una sorta di risarcimento punitivo anche in assenza di danni, perché la violazione di un obbligo di far eseguire la prestazione si traduce pur sempre in un inadempimento contrattuale che non è assistito dal rimedio della sanzione afflittiva o penale. Che questo illecito meriti di essere punito anche senza la prova del danno dovrebbe essere il legislatore a deciderlo e non il giudice; solo il legislatore potrebbe, ad esempio, distinguere l’ipotesi in cui è magari lo stesso lavoratore che si ribelli all’idea che mediante quel lavoro da lui avvertito come alienante, penoso, monotono, usurante, lui realizzi e sviluppi la propria personalità, per cui non aspetti altro della possibilità di liberarsene prima possibile.
Si tratta, in definitiva, sempre del solito dilemma: se e in che limiti la giurisprudenza può indulgere alla suggestione dei valori infrangendo la barriera della loro positivizzazione normativa .
3. L’autotutela quasi satisfattiva, il rifiuto della prestazione non dovuta e l’eccezione di inadempimento.
Nei confronti dell’esercizio illegittimo dei poteri del datore di lavoro una concreta strategia quasi satisfattiva, diretta a prevenire il danno in alternativa alla tutela risarcitoria, può derivare da una combinazione tra tutela giurisdizionale e autotutela individuale conservativa, in quanto consente al lavoratore di sottrarsi alla situazione pregiudizievole evitando così la lesione di beni fondamentali quali la salute, la dignità, la sicurezza, la riservatezza, ma nel contempo senza rinunziare al rapporto, come avverrebbe con le dimissioni, e cioè con l’autotutela estintiva .
La controindicazione in termini di effettività nei confronti dell’autotutela è la sua pericolosità per il lavoratore in quanto può trovarsi esposto a rischio licenziamento per il rifiuto della prestazione, e alla perdita definitiva del posto se il potere risulti esercitato legittimamente. Ma i rischi non sono del tutto esclusi neppure nel caso in cui nel giudizio del licenziamento il datore di lavoro non riesca a fornire la prova della legittimità del potere a cui si è sottratto il lavoratore, e ciò a causa di una non condivisibile giurisprudenza che in questa situazione ritiene applicabile, invece del semplice rifiuto di una prestazione non dovuta, l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., e quindi valuta di volta in volta se la reazione-inadempimento del lavoratore sia stata proporzionata all’inadempimento del datore; per cui vi è un orientamento che nega tale proporzionalità-buona fede nei casi in cui il datore, pur essendo il provvedimento illegittimo, continui a corrispondere la retribuzione e a pagare i contributi; ciò in quanto il lavoratore non potrebbe rifiutare aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione lavorativa, potendo egli invocare l’art. 1460 c.c. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, oppure se tale inadempimento sia così grave da incidere sulle sue esigenze vitali .
Ma anche in caso di esito positivo di tale valutazione si porrebbe l’ulteriore problema se sia applicabile la reintegrazione ai sensi dell’art. 18, comma 4, Stat. lav., o dell’art. 3, comma 2, D.L.vo n. 23/2015, o solo la tutela indennitaria, giacché qui il fatto sussisterebbe comunque e forse, a causa dell’applicazione dell’art. 1460 c.c., anche il fatto-inadempimento, la cui insussistenza un ragionevole orientamento estensivo della Cassazione equipara all’insussistenza del fatto materiale , da non confondere con la inaccettabile forzatura di includere nell’insussistenza del fatto anche l’inadempimento non notevole e di non scarsa importanza, residuando invece i dubbi interpretativi solo per il caso dell’inadempimento di scarsissima importanza o di minima gravità .
Questo rischio per il lavoratore può essere in parte prevenuto con l’uso “sinergico” della tutela cautelare, mediante la richiesta di un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c. c. di sospensione degli effetti dell’atto pregiudizievole, tutte le volte in cui questo metta in pericolo beni non patrimoniali del lavoratore, suscettibili di subire un danno “imminente ed irreparabile”, come quelli alla sicurezza, alla dignità, alla professionalità, all’immagine, oppure derivanti dallo sradicamento familiare . In tal modo, il rifiuto della prestazione non dovuta risulta conforme all’ordine cautelare, per cui dovrà escludersi qualsiasi profilo di colpa a carico del prestatore che dapprima si sia conformato all’ordine cautelare e, poi, non appena conosciuto l’eventuale travolgimento di questo, abbia subito offerto la prestazione prima rifiutata perché erroneamente ritenuta – da lui e dal giudice della cautela – non dovuta.
La differenza tra la fattispecie del legittimo rifiuto di una prestazione non dovuta senza alcuna necessità di invocare a sostegno un inadempimento dell’altra parte, e l’art. 1460 c.c., risulta particolarmente chiara alla luce del nuovo art. 2103 c.c. Se il lavoratore rifiuta l’adibizione a mansioni riconducibili, ad esempio, a due livelli inferiori di inquadramento o ad una categoria legale inferiore, non commette alcun inadempimento, in quanto si tratta di prestazioni non dovute e quindi non si applica l’art. 1460 c.c. Se invece il lavoratore rifiuta l’adibizione a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria, in quanto il datore non gli ha fornito la formazione indispensabile, essendo le nuove mansioni differenti dalle precedenti, in questo caso si applica l’art. 1460 c.c., in quanto il lavoratore commette un inadempimento in base a quella norma scritta male di cui al comma 3 dell’art. 2103, secondo cui il mancato adempimento di tale obbligo formativo non determina comunque la nullità dell’assegnazione; sicché il lavoratore, per sottrarsi al suo obbligo, deve far valere l’inadempimento dell’obbligo del datore alla formazione. Se, invece, si interpreta il suddetto comma 3, come sembra più razionale , nel senso che l’obbligo di formazione ivi previsto incombe sul lavoratore, mentre sul datore grava l’onere di impartire la formazione ai fini del legittimo esercizio dello jus variandi verso mansioni estranee al bagaglio di conoscenze acquisite nella fase pregressa del rapporto, in mancanza dell’assolvimento di tale onere l’ordinamento non gli riconosce più il potere modificativo, e quindi l’atto di assegnazione è privo di effetti, sicché esso può essere rifiutato dal lavoratore senza commettere alcun inadempimento; così ricostruita la fattispecie, l’obbligo della formazione incombe quindi sul lavoratore, e così si spiega la precisazione secondo cui, se il lavoratore non adempie a tale obbligo – che riguarda un facere infungibile – in relazione a una formazione pur “offerta” dal datore di lavoro, ciò non determina la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni, con la conseguenza che potrà ricadere sul lavoratore stesso la responsabilità dell’eventuale incapacità di svolgere le nuove mansioni.