I NOSTALGICI DELL’EQUIVALENZA DELLE MANSIONI
Intervento, con l’aggiunta di note, alle Giornate di Studio AIDLASS 2016, “Legge e contrattazione collettiva nel diritto del lavoro post-statutario”, Napoli, 16 – 17 giugno 2016.
di CARLO PISANI
Ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 24 maggio 2017
SOMMARIO:1. Le posizioni nostalgico – creative. – 2. La sottovalutazione da parte dei critici dell’indispensabile ruolo dell’autonomia collettiva. – 3. L’anacronistica difesa della concezione statica della professionalità costituzionalmente non obbligata. – 4. Lo scetticismo ingiustificato nei confronti della formazione. – 5. La valenza di norma anti incertezza del comma 1 ignorata dai critici. – 6. Le interpretatio abrogans: il recupero surrettizio dell’equivalenza e l’introduzione di una giustificazione obiettiva. – 7. Il superamento del problema dell’eccesso di delega.
1. Le posizioni nostalgico – creative
La maggiore novità introdotta dal nuovo art. 2103 cod. civ. è di tecnica legislativa. Viene infatti abbandonato il precedente modello basato sulla norma inderogabile di legge a precetto generico, quale era l’equivalenza, con conseguente superamento del monopolio legale della disciplina dei limiti al mutamento delle mansioni, e dei connessi problemi di rigidità, uniformità regolativa ed incertezza che ne derivavano. È stata invece adottata la tecnica del rinvio al contratto collettivo, utilizzando un istituto di quest’ultimo (il sistema di inquadramento) per riconnettervi un effetto, e cioè il limite al mutamento delle mansioni.
Questa modifica di tecnica normativa è stata accolta con favore[1] ma ha sollevato anche qualche critica da parte di coloro che potremmo definire i nostalgici dell’equivalenza.
In una certa misura è fisiologico che tutte le riforme destinate ad operare cambiamenti effettivi (e non gattopardeschi, del tipo “tutto cambi affinché nulla cambi”) possano suscitare qualche timore per il “nuovo”. Indubbiamente l’abbandono della vecchia e rassicurante protezione data dal binomio norma generale/giudice, può suscitare qualche spaesamento; così come può ingenerare opposizioni pregiudizialmente contrarie per motivi ideologici; oppure rammarichi per un lucroso contenzioso giudiziario fatto di risarcimenti danni da demansionamento[2].
Queste posizioni nostalgiche partono tutte dal medesimo facile argomento, secondo cui in uno stesso livello di inquadramento gli attuali contratti collettivi, alle volte o spesso, prevedono qualifiche anche professionalmente eterogenee tra loro. Di qui i timori che ciò possa consentire comportamenti fraudolenti del datore di lavoro, ad esempio, per indurre il dipendente alle dimissioni o per “mobbizzarlo”[3], adibendolo a mansioni a lui sgradite (va di moda l’esempio del cuoco spostato ad autista), oppure a mansioni che non riesca a svolgere, nonostante la formazione (va di moda l’esempio del capotreno adibito addirittura a ufficiale di macchina nei collegamenti ferry-boat per le isole! [4]); ovvero, possa comunque legittimare mutamenti verso mansioni che non comportino più, necessariamente ed inevitabilmente, la tutela integrale della professionalità acquisita.
L’obiettivo di tutte queste posizioni è sostanzialmente uno solo: tornare alla situazione quo ante[5], e cioè al controllo del giudice sulla conservazione della professionalità acquisita dal lavoratore.
Il problema, però, per i critici della norma, è che il suo tenore letterale è chiaro e non lascia adito a dubbi sulla scomparsa dell’equivalenza e sulla sua sostituzione con il limite costituito dalla categoria legale e dal livello di inquadramento. Anche sotto l’aspetto sistematico, l’obbligo di formazione, previsto dal comma 3, conferma la precisa volontà del legislatore di superare una tutela esclusivamente conservativa della professionalità.
Ed allora ecco che, per superare questi seri ostacoli di ordine testuale e sistematico e giungere alla restaurazione del binomio “norma generale inderogabile/giudice”, non si è fatto attendere l’immancabile ricorso all’interpretazione creativa “costituzionalmente orientata”, anche al fine di ovviare ad un presunto eccesso di delega[6], oppure l’altrettanto immancabile invocazione delle clausole generali di buona fede e correttezza[7], oppure, ancora, la censura diretta di costituzionalità[8]. Si è giunti addirittura a sostenere che il “riconducibile” di cui al comma 1, debba leggersi come “variante semantica” della nozione di equivalenza[9].
Come puntualmente accade in questi casi, si finisce sempre per prospettare interpretazioni creative, ovvero abrogans[10], immaginando una norma diversa, e, quindi, nella sostanza, facendo rientrare dalla finestra quell’equivalenza che è uscita dalla porta, dando voce così ad un soggettivismo interpretativo avulso dalla mediazione praticata dal legislatore. Con analogie con quanto si è verificato in relazione al comma 5 dell’art. 18 Stat. lav. da parte di tutti coloro che hanno sostenuto l’inclusione del giudizio di proporzionalità nell’insussistenza del fatto di cui al comma 4.
Si potrebbe dire che questo è il bello della “creatività” degli interpreti; tuttavia questa attività creativa forse si attaglierebbe meglio al mondo dell’estetica e non a quello del diritto dove non dovrebbe trovare spazio il principio nichilistico del “tutto è permesso”[11].
[1] C. Pisani, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Torino, 2015, 35 ss.; F. Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel d. lgs. n. 81/20158, in W.P. CSDLE “Massimo D’Antona”, 252/2015, 5; A. Garilli, La nuova disciplina delle mansioni tra flessibilità organizzativa e tutela del prestatore di lavoro, Giorn. dir. lav. rel. ind., 2016, 129 ss.; V. Nuzzo, Il nuovo art. 2103 c.c. e la (non più necessaria) equivalenza professionale delle mansioni, Riv. it. dir. lav., 2015, II, 1047; V. Ferrante, Nuova disciplina delle mansioni del lavoratore, AA. VV., I contratti di lavoro, Torino, 2016, 38, secondo cui la possibilità che sia la contrattazione collettiva a riempire di significati la previsione normativa è “soluzione sulla quale si può senz’altro convenire”; D. De Feo, La nuova nozione di equivalenza professionale, Arg. dir. lav., 2015, 86.
[2] in cui “la sindrome ansiosodepressiva reattiva a situazioni di lavoro sembra ormai divenuta un carattere antropologico dell’italiano medio”; così A. Vallebona, Il danno alla persona del lavoratore: prospettiva di disciplina legislativo, Lavoro e Spirito, Torino, 2011, 366, il quale, per porre un argine a questa corsa al risarcimento, auspicava con intervento del legislatore affinché ricollegasse all’illecito una penale fissata tra un minimo e un massimo, anche mediante il rinvio all’autonomia collettiva: così, Id., Il danno da dequalificazione tra presunzione e risarcimento equitativo, ivi, 370.
[3] D. De Feo, La nuova nozione, cit., 863, il quale teme che la “risorsa” possa essere “stressata”.
[4] Così V. Ferrante, Nuova disciplina, cit., 36-37.
[5] Se non altro lo ammettono esplicitamente G. Ianniruberto, Jus variandi orizzontale e nuovo art. 2103 c.c., in questa rivista, 2016, 260 ss. e U. Gargiulo, Lo jus variandi nel “nuovo art. 2103”, Riv. giur. lav., 2015, 1, 619.
[6] G. Ianniruberto, Jus variandi, cit., 263.
[7] E. Balletti , I poteri del datore di lavoro tra legge e contratto, relazione AIDLASS, Napoli, 16 – 17 giugno 2016, 53-54 (dattiloscritto); D. De Feo, La nuova nozione, cit., 863-864 .
[8]A. Vallebona, Dubbi di costituzionalità per la nuova disciplina del mutamento di mansioni, in questa rivista, 2016, 7.
[9] Cfr. V. Ferrante, Nuova disciplina, cit., 38, U. Gargiulo, Lo jus variandi, cit., 619, secondo cui “la nozione di equivalenza sembra sopravvissuta”.
[10] Cfr. appunto, V. Ferrante, Nuova disciplina delle mansioni, cit., 38, evoca il “rischio” di un’interpretatio abrogans, che sembra però poi auspicata dal medesimo autore.
[11] Cfr. V. Nuzzo, La norma oltre la legge, Napoli, 2012, 9; G. Alpa, L’arte di giudicare, Roma-Bari; 1996, 5, S. Chiassoni, L’interpretazione nella giurisprudenza: splendori e miserie del metodo tradizionale, Dir. lav. rel. ind., 2008, 554. Più in generale, Cfr. N. Irti, Nichilismo giuridico, Roma – Bari, 2004, 13.