Il demansionamento dopo il nuovo articolo 2103 cod. civ.
CARLO PISANI
Professore ordinario dell’Università di Roma “Tor Vergata”
in Le tutele del lavoro nelle trasformazioni dell’impresa, Liber Amicorum Carlo Cester
a cura di Marco Tremolada e Adriana Topo
Cacucci Editore, Bari, 4/12/2019
sommario: 1. Le tipologie di demansionamento vietato sotto la vigenza del precedente art. 2103 cod. civ. – 2. Le deroghe giurisprudenziali all’equivalenza – 3. Le fattispecie consentite di demansionamento e quelle vietate dal nuovo art. 2103 cod. civ. – 4. Tecniche di tutela nei confronti del demansionamento e della omessa formazione: a) autotutela, eccezione di adempimento, non imputabilità dell’inadempimento – 5. segue: b) le altre tecniche di tutela di diritto comune: azione di adempimento e risarcimento del danno – 6. L’onere della prova.
Capitolo primo
Le tipologie di demansionamento vietato sotto la vigenza del precedente art. 2103 cod. civ.
Demansionamento è un’espressione riassuntiva con la quale si intende genericamente indicare un mutamento delle mansioni peggiorativo o sfavorevole per i lavoratore. Come vedremo, non si tratta soltanto della ipotesi di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori. Anzi, etimologicamente la particella “de” starebbe a significare la sottrazione delle mansioni; ma giuridicamente il concetto è più ampio perché comprende anche l’adibizione ad altre mansioni. Il demansionamento si inscrive, dunque, nel più ampio fenomeno che prende il nome di vicenda modificativa del contenuto della prestazione oggetto del contratto di lavoro; vicenda frequente in un rapporto di durata quale quello di lavoro, tant’è vero che essa viene disciplinata da un’apposita norma, l’art. 2103 cod. civ.
Il demansionamento non sempre è illegittimo; quindi tale termine, a rigore, non può essere usato quale sinonimo di mutamento vietato delle mansioni, occorrendo invece far seguire ad esso l’aggettivazione di legittimo o illegittimo. Tuttavia, poiché il linguaggio è una convenzione, si può anche decidere di usare tale termine solo per indicare i mutamenti illegittimi delle mansioni, facendo così prevalere l’aspetto strettamente giuridico rispetto a quello fenomenico.
Ancora da un punto di vista terminologico, può anche essere utilizzata l’espressione dequalificazione, anche se demansionamento sembra più preciso in quanto la fattispecie riguarda appunto le mansioni. Questo non significa che la qualifica è estranea al fenomeno; però non di rado anche nel linguaggio giurisprudenziale quest’ultimo termine non assume sempre un significato univoco, venendo alle volte utilizzato come sinonimo di categorie o livello di inquadramento[1], altre volte di categoria legale (es. qualifica di dirigenti); solo se lo si assume nel significato più corretto, cioè come variante semantica delle mansioni, oppure come espressione riassuntiva delle mansioni dedotte in contratto[2], potrebbe essere utilizzata indifferentemente al posto di demansionamento.
Fino al 24 giugno 2015, con il termine demansionamento si indicava il mutamento delle mansioni disposto in violazione della regola dell’equivalenza prevista dall’art. 2103 cod. civ., comma 1, nel testo precedente a quello novellato dall’art. 3 del d. lgs. n. 81/2015, entrato in vigore appunto il 25 giugno 2015, che a sua volta era stato novellato nel 1970 dall’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori rispetto al testo originario del codice civile del 1942[3].
La regola dell’equivalenza si configurava come limite legale all’esercizio dello jus variandi del datore di lavoro, ma anche all’autonomia negoziale delle parti, considerata la inderogabilità della norma, rafforzata dalla espressa previsione dei patti contrari di cui al comma 2.
La violazione di tale precetto legale poteva essere realizzata mediante tre modalità.
A) L’adibizione a mansioni inferiori, e cioè inquadrate dal contratto collettivo in un livello inferiore rispetto a quello spettante al lavoratore in base alle ultime mansioni svolte; l’inferiore inquadramento delle nuove mansioni era ritenuta circostanza sufficiente per sancire la violazione della norma e quindi assorbente rispetto all’indagine se le nuove mansioni fossero o no equivalenti anche da un punto di vista professionale con le precedenti[4].
B) L’adibizione a mansioni non inferiori, perché inquadrate nello stesso livello dal contratto collettivo, ma che non consentivano al lavoratore di conservare il bagaglio professionale acquisito nella fase pregressa del rapporto[5]. In estrema sintesi, al di là di qualche isolata sentenza[6], secondo la prevalente giurisprudenza la norma avrebbe imposto, come è stato efficacemente affermato, che “il tornitore rimanesse per sempre tornitore, il gruista per sempre gruista”[7], con un’ “attenzione spasmodica” alla conservazione della professionalità acquisita[8].
C) La sottrazione delle mansioni, cioè la privazione totale dei compiti lavorativi, per cui il lavoratore viene lasciato sostanzialmente inutilizzato, oppure la sottrazione parziale, ma con riduzione qualitativa tale da determinare una sottoutilizzazione professionale del dipendente[9]. Qui la giurisprudenza si è spinta ad affermare che tale fattispecie sarebbe estranea alla regola dell’equivalenza poiché riconosce addirittura un diritto generalizzato del lavoratore all’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa, ricavandolo direttamente dagli artt. 2, 4 e 35 Cost.[10] Secondo questo orientamento la prestazione lavorativa non costituirebbe soltanto un obbligo del dipendente nell’ambito dello scambio tipico del contratto di lavoro subordinato, ma diverrebbe anche, appunto, un diritto, poiché il lavoro non rappresenterebbe solo un mezzo si sostentamento e di guadagno ma altresì un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore. Dal punto di vista del demansionamento, la differenza risiede nel fatto che, se si riconosce un tale diritto generalizzato, in caso di sottrazione delle mansioni l’illecito contrattuale si verifica automaticamente a prescindere dal fatto se la forzata inattività abbia comportato o no la dispersione del patrimonio professionale del lavoratore; se, invece, si nega tale diritto, l’illecito si configura solo se nel caso concreto sia dimostrabile un effettivo vulnus al “saper fare” del dipendente.
Parte non trascurabile della dottrina si è però mostrata restia a riconoscere un simile diritto generalizzato[11] oltre i casi particolari in cui esso sia desumibile dal contratto individuale di lavoro, come ad esempio per il lavoro sportivo o artistico, ovvero allorquando tale diritto sia ricavabile da norme speciali, come avviene nell’apprendistato o nel patto di prova. Si è sostenuto, condivisibilmente, che, da un punto di vista civilistico, il principio costituzionale di realizzazione della persona umana mediante il lavoro non sembra annoverare l’obbligo del datore di lavoro di utilizzare effettivamente il dipendente[12], giacché “lo Statuto del lavoratori non ha introdotto alcun elemento di modifica nella struttura dello scambio del rapporto. Lo Statuto ha profondamente modificato il potere organizzativo dell’imprenditore, ma queste modifiche non alterano nessun elemento del contratto”[13].
Il suddetto orientamento della giurisprudenza, in assenza di precisi riferimenti normativi sui quali basarsi, appare più che altro come il punto di emersione di una più generale concezione che potremo definire “lavorocentrica” dell’uomo[14] perché ritiene che lo sviluppo della personalità venga attuato principalmente attraverso il lavoro; ma uno degli aspetti che solleva più perplessità di questa concezione è che essa non distingue più a tal fine tra lavori qualificanti, creativi, non ripetitivi, e quelli alienanti, penosi, monotoni, parcellizzati o addirittura usuranti; anche questi ultimi, con un po’ di ipocrisia, vengono equiparati ai primi quali fondamentali fattori per lo sviluppo della personalità dell’individuo[15]. Il che è appunto quantomeno dubbio, come è confermato dall’accanita resistenza dei lavoratori contro l’allungamento del’età pensionabile e, all’opposto, dall’insoddisfazione per chi svolge lavori non alienanti quando deve anticipare la pensione. Lo stesso lavoratore che è costretto a svolgere un lavoro sentito da lui come alienante è probabile che si ribelli all’idea secondo cui mediante tale lavoro egli realizzi e sviluppi la propria personalità; piuttosto, di quel lavoro egli vuole liberarsene il prima possibile; sicché rimangono ancora valide le osservazioni che mettevano in guardia sulla “vacue esaltazioni della gioia del lavoro”[16].
[1] Cfr., ad esempio, S.U. 24 novembre 2006, n. 25033, in Mass. giur. lav., 2007, p. 17, a proposito delle mansioni promiscue, con nota di C. PISANI, Le mansioni promiscue secondo le Sezioni Unite: consensi e dissensi, in Mass. giur. lav., n. 1-2, 2007, p. 24-32.
[2] G. GIUGNI, Mansioni e qualifiche nel rapporto di lavoro, Napoli, 1963, p. 3; E. GHERA, La mobilità introaziendale e limiti dell’art. 13 Stat. lav., in Mass. giur. lav., p. 793.
[3] La nuova norma si applica anche ai mutamenti di mansioni disposti prima del 25 giugno 2015 in atto ancora dopo quella data: Trib. Roma, 30 settembre 2015, n. 8195, in Mass. giur. lav., 2015, n. 11, p. 777; contra Trib. Ravenna 22 settembre 2015, ivi, 2016, n. 3, p. 152, secondo cui invece la nuova disciplina non si applica allorquando l’adibizione del lavoratore alle nuove mansioni sia avvenuta si antecedentemente al 25 giugno 2015 anche se poi si protragga oltre tale data.
[4] Cfr. per tutte, Cass. 25 gennaio 2006, n. 1388, in Guida lav., 2006, p. 36; Cass. 6 giugno 1995, n. 6333, in Notiziario giuridico lav., 1995, p. 732; Cass. 17 marzo 1990, n. 2251, in Rep. Foto it., 1990, Lavoro (Rapporto), n. 746; Cass. 23 gennaio 1998, n. 539, in Notiziario giuridico lav., 1998, p. 313; Cass. 16 luglio 1986, n. 4602, in Rep. Foro it., 1986, Lavoro (Rapporto), n. 833; Cass. 18 maggio 1984, n. 3076, in Giust. civ., 1985, I, p. 115; Cass. 5 aprile 1984, n. 2231, in Riv. it. dir. lav., 1984, II, p. 786. In dottrina, per tutti, F. LISO, La mobilità del lavoratore in azienda, Milano, 1982, p. 178; E. GHERA, Diritto del lavoro, Bari, 1985, 207 e ss.
[5] Giurisprudenza costante e straripante; tra le più recenti che ribadiscono l’orientamento rigido, Cass. 22 febbraio 2016, n. 3422 e Cass. 23 febbraio 2016, n. 3485, in Riv. it. dir. lav., 2016, II, p. 494; Cass. 4 agosto 2015, n. 17624, in Guida lav., 2014, n. 37, p. 48; Cass. 3 febbraio 2015, n. 1916, secondo cui le mansioni devono essere aderenti alla competenza professionale specifica acquisita dal dipendente senza che assuma rilievo l’inquadramento formale tra le vecchie e le nuove mansioni. Conformi Cass. 3 marzo 2016, n. 4211, in Guida lav., 2016, n. 14, p. 28; Cass. 23 maggio 2013, n. 12725, in Guida lav., 2013, n. 26, p. 33; Cass. 24 giugno 2013, n. 15769, in Riv. giur. lavoro, 2013, II, p. 611; Cass. 14 giugno 2013, n. 15010, in Rep. Foro it., 2013, Lavoro (Rapporto), n. 892.
[6] Cass. 16 giugno 2009, n. 13941, in Mass. giur. lav., 2010, n. 4, p. 122.
[7] Così F. LISO, La mobilità, op. cit., p. 175. Per una critica a tale orientamento giurisprudenziale: C. PISANI, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Giappichelli, Torino, 2015, p. 15 ss.
[8] Così A. PALLADINI, La mobilità del lavoro in azienda: recenti tendenze giurisprudenziali e contrattazione di prossimità, in Mass. giur. lav., 2012, n. 3; G. IANNIRUBERTO, Jus variandi orizzontale e nuovo art. 2103 c.c., in Mass. giur. lav., 2016, p. 261; M. BROLLO, La mobilità professionale dei lavoratori dopo il Jobs Act, in Riv. it. dir. lav., 2016, I, p. 309.
[9] Cass. 11 luglio 2005, n. 14496, in Mass. giur. lav., 2006, 1-2, 66, 8, la quale precisa che non ogni modificazione quantitativa delle mansioni è sufficiente ad integrare il demansionamento, dovendo invece farsi riferimento all’incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente e nella sua collocazione nell’ambito aziendale. Conformi Cass. 18 maggio 2012, n. 7963, in Mass. giur. lav., 2013, p. 300; Cass. 24 aprile 2007, n. 9865, in Guida lav., 2007, n. 34, p. 40; Cass. 4 ottobre 1995, n. 10405, in Foro it., 1995, I, p. 3133; Cass. 1° giugno 2002, n. 7967, in Mass. giur. lav., 2002, p. 664; Cass. 11 gennaio 1995, n. 276, in Riv. it. dir. lav., 1995, II, p. 825. È stato ritenuto dequalificante per un dirigente la suddivisione con un altro lavoratore delle mansioni precedenti da Cass. 5 maggio 2004, n. 8589, in Guida lav., 2004, n. 25, p. 44; oppure la minor rilevanza del suo “ruolo”, da Cass. 24 aprile 2007, n. 9865, ivi, 2007, n. 34, p. 40.
[10] Cfr. Cass. 18 maggio 2012, n. 7963, in Mass. giur. lav., 2013, p. 300, che ricava a fortiori dalla regola dell’equivalenza il diritto all’esecuzione della prestazione lavorativa; Cass. 21 maggio 2009, n. 11835, in Mass. giur. lav., 2010, p. 222; Cass. 17 settembre 2008, n. 23744, in Arg. dir. lav., 2009, I, p. 131, si spinge addirittura a sostenere l’esistenza di un diritto soggettivo all’esecuzione della prestazione lavorativa anche per il lavoratore autonomo. Per il diritto allo svolgimento della prestazione del lavoratore subordinato, cfr., inoltre, Cass. 6 marzo 2006, n. 4766, in Mass. giur. lav., 2007, 1-2, p. 33; Cass. 5 ottobre 2004, n. 19899, in Guida lav., 2004, n. 46, p. 54; Cass. 1° giugno 2002, n. 7967, in Riv. it. dir. lav., 2002, 5, p. 39; Cass. 3 giugno 1995, n. 6265, in Foro it., 1996, I, p. 1000; Cass. 13 agosto 1991, n. 8835, in Riv. it. dir. lav., 1992, II, p. 954. Così, ad es. Cass. 12 aprile 2012, n. 7963, in Riv. it. dir. lav., 2013, II, p. 104; Cass. 21 maggio 2009, n. 11835, in Mass. giur. lav., 2010, p. 222. Invece ribadisce che sia l’attribuzione del lavoratore a mansioni inferiori, sia il mancato affidamento di qualsiasi mansione sono entrambe situazioni in cui si risolve la violazione dell’art. 2103, Corte Cost., 6 aprile 2004, n. 113, in Mass. giur. lav., 2004, p. 588.
[11] Cfr. E. GHERA, Le sanzioni nella tutela del lavoro subordinato, in Giornale dir. lav. e relazioni ind., 1979, p. 330 ss.; E. GRANDI, Lavoro (rapporto), Enc. Dir., XXXVIII, Milano, 1987, p. 337 ss.; M. DELL’OLIO, Licenziamenti illegittimi e provvedimenti giudiziari, in Giornale dir. lav. e relazioni ind., 1987, p. 433; A. VALLEBONA, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del lavoratore, Padova, 1995, P. 118; Id., Spunti critici sulla questione del diritto del lavoratore allo svolgimento della prestazione, in Riv. it., dir. lav., 1996, II, p. 364, che distingue il caso, vietato dall’art. 2103 c.c., in cui il lavoratore venga tenuto in azienda senza alcun compito, da quello, ritenuto invece legittimo, in cui il dipendente, pur retribuito, venga completamente esonerato dallo svolgimento della prestazione e gli venga completamente restituita tutta la sua libertà. Ciò in quanto non sussisterebbe un generale diritto del lavoratore allo svolgimento della prestazione. Per quest’ultima conclusione in dottrina, tra gli altri, S. MAGRINI, Lavoro (contratto individuale), Enc. Dir., XXIII, Milano, p. 384 e nt. 79; L. FERLUGA, Tutela del lavoratore e disciplina delle mansioni, Milano, 2012, p. 115; G. GHEZZI, La mora del creditore nel rapporto di lavoro, Milano, 1965, p. 738; già L. BARASSI, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Milano, 1901, p. 513; C. M. BIANCA, Le obbligazioni, IV, Milano, 200, p. 46; A. DI MAJO, voce Obbligazioni, Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, p. 22. In senso favorevole invece alla configurabilità di un generale diritto del lavoratore all’esecuzione della prestazione, R. SCOGNAMIGLIO, Diritto del lavoro, Napoli, 1994, p. 217 ss; G. SANTORO PASSARELLI, Intervento, in Le sanzioni nella tutela del lavoro subordinato, Atti del VI Congresso nazionale di diritto del lavoro, Alba 1-3 giugno, 1978, Milano, 1979, p. 129 ss; F. MAZZIOTTI, Il licenziamento illegittimo, Napoli, 1982, p. 242; E. PERA, Sul diritto del lavoratore a lavorare, in Riv. it. dir. lav., 1991, II, p. 388; L. NOGLER, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra principi costituzionali, in Giornale dir. lav. e relazioni ind., 2007, n. 4, p. 593.
[12] Così A. VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro, II, Il Rapporto di lavoro, Padova, 2012, p. 184.
[13] Così L. MENGONI, Le modificazioni del rapporto di lavoro alla luce dello Statuto dei lavoratori, in Diritto e Valori, Bologna, 1985, p. 377.
[14] C. PISANI, La nuova disciplina, op. cit., p. 104 ss.
[16] G. GHEZZI, La mora del creditore nel rapporto di lavoro, op .cit., 237 ss.