Dubbi (infondati) sulla costituzionalità del “può” reintegrare ex art. 18 Stat. lav.
Carlo Pisani
Professore ordinario di Diritto del lavoro
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
in DIRITTO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI, n. 3/2020
Sommario: 1. Il “può” non significa “deve” e quindi il Tribunale solleva la questione di costituzionalità. – 2. La diversità “ontologica” del licenziamento per colpa da quello per giustificato motivo oggettivo esclude anche l’ingiustificata disparità di trattamento sanzionatorio. – 3. La mancanza della previsione espressa dei criteri per la determinazione della sanzione non è incostituzionale, come è desumibile da C. cost. n. 194/2018. – 4. La motivazione equitativa della scelta del giudice.
1. Il Tribunale di Ravenna dubita della legittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, Stat. lav., nella parte in cui la norma prevede, a fronte di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui sia stata accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base dello stesso, che il giudice “possa” e non “debba” ordinare la reintegrazione a risarcimento limitato, ai sensi del quarto comma, potendo scegliere alternativamente di applicare il regime indennitario forte, ai sensi del quinto comma. Tuttavia il giudicante non ha ritenuto, giustamente, di “fare da sé”, interpretando il “può” reintegrare come se fosse scritto “deve” reintegrare, al contrario di due sentenze della Cassazione (Cass. 13 marzo 2019, n. 7167; Cass. 14 luglio 2017, n. 17528; contra, Cass. 2 maggio 2018, n. 10435; per un commento: C. PISANI, Il regime sanzionatorio alla deriva del diritto liquido, in RIDL, 2018, I, p. 149), che invece hanno fatto ricorso all’(ab)usata tecnica dell’interpretazione costituzionalmente orientata per «varcare i cancelli della parola della legge» (cfr. N. IRTI, Un diritto incalcolabile, Giappichelli, 2016, p. 57) e creare una nuova norma. Ed infatti il presupposto dal quale parte il giudice rimettente è proprio l’opposto, e cioè che il “può” reintegrare non è suscettibile di altra interpretazione se non quella fatta palese dal significato proprio della parola, nel senso che non è previsto alcun obbligo di ordinare la reintegrazione. L’ordinanza, dunque, non segue la tendenza, tipica della stagione del diritto liquido, di adottare interpretazioni manipolatrici del testo della norma e quindi correttamente sottopone alla Corte costituzionale i suoi dubbi. Peraltro, il giudice della legge non potrà dichiarare l’inammissibilità della questione sollevata, in quanto la norma non è suscettibile di una differente interpretazione eventualmente conforme a costituzione, nonostante le due suddette sentenze della Cassazione, che quindi la Consulta dovrà smentire, anche perché la stessa Suprema Corte, con la sentenza n. 10435/2018, cit., è tornata sui suoi passi affermando ciò che è evidente, e cioè che “può” non significa “deve”. Meno condivisibile è invece l’ordinanza nel merito dei motivi che a suo avviso farebbero sospettare la norma di contrarietà a costituzione.