Dal criterio unico dell’anzianitá alla pluralitá dei criteri lasciati alla discrezionalitá del giudice: come cambia l’indennitá per il licenziamento ingiustificato. Scritti in onore di Roberto Pessi
di Carlo Pisani
Professore Ordinario di Diritto del Lavoro
Università di Roma “Tor Vergata”
in Il diritto del lavoro e la sua evoluzione. Scritti in onore di Roberto Pessi
Cacucci Editore, 2021
Sommario: 1. La nuova norma e la legittimità costituzionale della soglia minima dell’indennità. – 2. La specialità dell’indennità in questione rispetto al risarcimento del danno, ignorata dalla Corte. – 3. È costituzionalmente obbligata la discrezionalità del giudice ai fini della determinazione del risarcimento “adeguato”? – 4. La scomparsa dei criteri per la determinazione dell’indennità nel dispositivo della sentenza. – 5. L’incertezza sulla “pesatura” dei singoli criteri ricavabili in via interpretativa e la rilevanza dell’anzianità. – 6. L’onere della prova e la censurabilità in Cassazione. – 7. La certezza del diritto dimenticata. – 8. La dissuasione da incertezza del diritto: ovvero troppa certezza nuocerebbe alla deterrenza. – 9. La necessità di un nuovo intervento del legislatore.
1. Con la sentenza n. 194/2018, la Corte Costituzionale, con una sorta di operazione chirurgica, ha creato una norma “monca”, o un moncone di norma, che ora così recita: “…il Giudice…condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità … in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”. In tal senso è chiaro il dispositivo della sentenza in cui si dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, d. lgs. 23/2015, “limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio»”.
La Corte ha dunque ritenuto incostituzionale il meccanismo di predeterminazione degli incrementi di due mensilità di retribuzione agganciati a ogni anno di anzianità, ai fini del calcolo dell’indennità in questione.
Anche se formalmente la sentenza può rientrare nella tipologia di quelle di accoglimento parziale poiché colpisce una parte della disposizione scritta nel testo, nella sostanza essa è accentuatamente manipolativa in quanto la norma che residua dalla dichiarazione di incostituzionalità è molto diversa dalla sua versione originaria, come si vedrà.
Per meglio comprendere l’esatta portata della sentenza occorre innanzitutto precisare che la Corte ha ritenuto costituzionalmente legittime le soglie più basse dell’indennità, a cominciare da quella minima, rigettando quindi la questione della esiguità della indennità medesima. Anzi, tale questione, secondo la Corte, non sarebbe stata neppure “al cuore della doglianza” dell’ordinanza di rimessione. Nei commenti a tale ordinanza, si è invece discusso più che altro proprio sulle soglie più basse dell’indennità, ravvisando in questo aspetto il principale dubbio di costituzionalità sollevato dal giudice rimettente, giacché il Tribunale di Roma ha accusato il legislatore di aver fissato tali soglie in misura “irrisoria”, “evanescente”, “inadeguata”, “modesta”. Tanto è vero che in questi commenti ci si è chiesti se l’eventuale accoglimento della questione di costituzionalità avrebbe avuto l’effetto di far rivivere la misura minima del regime previsto dalla l. n. 92/2012; effetto, questo, da taluni visto come una “cristallizzazione” in contrasto con la necessaria dinamicità e discrezionalità della fonte legislativa4 ; da altri invece auspicato, ritenendosi l’indennità incostituzionale per irragionevole differenza di trattamento nella parte in cui non raggiunge le dodici mensilità.
A prescindere dalla differente “interpretazione” dell’ordinanza di rimessione, la Corte Costituzionale ha comunque sconfessato tutti coloro che avevano gridato allo scandalo per la misura delle soglie più basse dell’indennità. La sentenza, infatti, ha espressamente affermato che la discrezionalità del giudice “si esercita comunque entro i confini tracciati dal legislatore … entro una soglia minima e massima”, non escludendo che la soglia minima possa costituire anch’essa adeguato ristoro per il lavoratore, anche se, precisa la Corte, “non sempre ciò potrebbe verificarsi, proprio a causa del rigido collegamento con l’anzianità ritenuto incostituzionale.
Sarebbe dunque una forzatura sostenere che anche su questo aspetto la Corte abbia inteso insinuare dei dubbi; si tratta più che altro di un desiderio di chi si aspettava la demolizione delle soglie minime6 , che però non trova riscontro nel pur non sempre limpidissimo argomentare della sentenza. La sentenza già di per sé crea non poche incertezze sicché non c’è certo il bisogno di introdurne delle altre prive di fondamento. È bene dunque ribadire che l’indennità di sei mensilità di retribuzione continua ad essere “liquidabile” dal giudice anche dopo la sentenza della Corte.