CASO PLUSVALENZE JUVENTUS – IL SISTEMA SANZIONATORIO DELL’ORDINAMENTO SPORTIVO PUÒ LEDERE LA DIGNITÀ DELL’INCOLPEVOLE CALCIATORE-LAVORATORE? UNA PROSPETTIVA GIUSLAVORISTICA
CAN THE SANCTIONING RULES OF THE SPORTS SYSTEM HARM THE DIGNITY OF THE BLAMELESS PLAYER-WORKER? A JURISPRUDENTIAL PERSPECTIVE ON THE SIDELINES OF JUVENTUS FOOTBALL CLUB CAPITAL GAINS CASE
di Carlo Pisani
Professore ordinario di Diritto del lavoro – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”.
Testo dell’intervento tenuto al Master di Diritto Sportivo del 27 maggio 2023, Università degli Studi di Roma, La Sapienza, Facoltà di Giurisprudenza, dedicato alla controversia Plusvalenze che ha coinvolto la Juventus.
Massimario di giurisprudenza del lavoro n. 2/2023, Giappichelli Editore
ABSTRACT
Il “caso” plusvalenze che ha coinvolto la società di calcio della Juventus viene qui esaminato sotto il profilo della posizione del calciatore, lavoratore subordinato di tale squadra e quindi in una prospettiva giuslavoristica. In particolare, si prende in considerazione l’aspetto della dignità del lavoratore che viene mortificata dalla tipologia della sanzione, costituita dalla sottrazione dei punti conquistati sul campo, nonché dalle modalità della sua applicazione, che vanificano lo sforzo di prestazione dell’incolpevole calciatore, nel quadro di una giurisprudenza costituzionale e di cassazione tutta volta ad esaltare il valore del lavoro in sé e della sua utilità come mezzo privilegiato per realizzare il diritto fondamentale di realizzare lo sviluppo della personalità, attribuito dall’art. 3 Cost.
The capital gains “case” involving the Juventus Football Club is examined here from the player’s perspective – as an employee of that team – and thus from a labor law perspective. In particular, the article considers the aspect of the worker’s dignity, that is mortified by the type of penalty – the deduction of points won, as well as the manner of its application, which frustrates the performance effort of the blameless player. This is set within the framework of a constitutional and Supreme Court jurisprudence that, instead, exalts the value of work itself and its usefulness as a privileged means of realizing the fundamental right to achieve the development of the personality conferred by Article 3 Const.
SOMMARIO: 1. La prospettiva giuslavoristica del caso plusvalenze. – 2. La dignità del lavoro, senza distinzioni tra ordinamento sportivo e ordinamento statale. – 3. La lesione della dignità dell’incolpevole calciatore-lavoratore.
1. La prospettiva giuslavoristica del caso plusvalenze
In questo intervento si espongono brevi riflessioni sul versante giuslavoristico riguardanti la vicenda “plusvalenze”, che ha visto la società di calcio Juventus subire un andirivieni di sanzioni consistenti in punti di penalizzazione, dati, tolti e parzialmente ridati, a campionato in corso. L’interrogativo riguarda l’impatto sanzionatorio soltanto sui calciatori-lavoratori subordinati, in questo caso della Juventus. Quindi non si entra nel merito dell’illecito, né dei suoi profili sostanziali o processuali. In effetti, la questione potrebbe essere preliminarmente liquidata in due modi: da un lato, pensando che qui non si tratta di giustizia ma solo di politica sportiva (ritorsione indiretta UEFA a Superlega, procure che indagano altre no, giudici-tifosi, ecc.); dall’altro, che abbiamo a che fare con ricchi calciatori, il cui unico interesse è economico. Tuttavia, in sede scientifica, il giurista di lavoro deve anche esplorare strade inedite. Quindi l’interrogativo è se questo tipo di sanzione, e le modalità della sua applicazione, possano aver comportato una violazione della dignità del calciatore, che secondo il nostro ordinamento è un lavoratore subordinato, sia pure con la disapplicazione di alcune norme specifiche, come quella sulle mansioni o sui controlli (legge n. 91/1981). Stiamo dunque parlando della dignità dell’uomo che lavora, qualunque lavoro esso sia. Si tratta di principi di rango costituzionale, di diritti assoluti e inviolabili della persona, che si applicano a tutti, e quindi anche ai calciatori professionisti. Da ciò discende che non è consentito a nessun ordinamento “particolare”, come è quello sportivo, di violarli, perché altrimenti tale ordinamento “speciale” si porrebbe in una situazione di illegalità rispetto allo (e al di fuori dello) ordinamento statuale [1]. Del resto, anche il codice di disciplina della Federcalcio prevede che esso “è adottato in conformità a quanto disposto dalle norme dell’ordinamento statale” (art.3). Neanche la clausola compromissoria potrebbe consentire il prodursi di effetti pregiudizievoli nell’ambito dell’ordinamento sportivo nei confronti del soggetto che facesse valere la lesione di questi suoi diritti assoluti.
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2. La dignità del lavoro, senza distinzioni tra ordinamento sportivo e ordinamento statale
Per inquadrare il tema della dignità del lavoro, e in particolare del lavoratore subordinato, sono sufficienti brevi cenni, citando principi più volte ribaditi dalla Corte costituzionale e dalla Cassazione. Secondo la Consulta il diritto fondamentale di realizzare lo sviluppo della personalità, attribuito dall’art. 3 Cost., viene attuato principalmente attraverso il lavoro [2]. La dignità dell’uomo che lavora è quindi un valore assoluto, che permea di sé tutto l’ordinamento e che va al di là del tipo di attività svolta, parificando i lavori gratificanti, creativi, non ripetitivi, con quelli alienanti, penosi, monotoni, parcellizzati o addirittura usuranti. Non si tratta solo di principi astratti. Significativamente la Cassazione è giunta ad affermare perfino un generalizzato obbligo del datore di lavoro di far effettivamente svolgere al lavoratore la prestazione lavorativa dedotta in contratto [3]. In assenza di un dato normativo certo sul quale basare questo capovolgimento anomalo di un obbligo (quello di rendere la prestazione lavorativa), che diventa anche un diritto dell’obbligato, la giurisprudenza richiama direttamente gli art., 3, 4 e 35 Cost. Ciò è tanto vero che il lavoratore, pur retribuito ma lasciato inattivo, può chiedere il risarcimento dei vari danni che ciò abbia provocato. Nel nostro ordinamento esiste dunque un principio per cui il giudice può riconoscere il risarcimento del danno a qualsiasi lavoratore anche solo in conseguenza dell’umiliazione o della mortificazione da costui subìta consistente nel percepire la retribuzione senza svolgere la relativa prestazione, come sancito dalla Cassazione secondo cui in questa situazione l’immagine del dipendente viene «ineluttabilmente mortificata», causando una lesione di un «bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità del lavoratore intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità» [4]. Anzi si tratta, come affermato dalla Consulta, «di danni alla persona e alla sua dignità particolarmente gravi». Questa sorta di drittwirkung fa capire quale forza di penetrazione assuma quel valore nel nostro ordinamento; si tratta del valore del lavoro in sé, che costituisce la nota dominante della dignità e della realizzazione [continua ..]
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3. La lesione della dignità dell’incolpevole calciatore-lavoratore
Questi principi possono venire in rilievo nella vicenda in esame se si considera che la sottrazione di punti conquistati sul campo, vanifica oggettivamente lo sforzo del calciatore-lavoratore, non responsabile dell’illecito, nel raggiungimento del risultato, con conseguente sua frustrazione e umiliazione. Inoltre, si può ragionevolmente presumere che lo stillicidio e l’andirivieni delle sanzioni, irrogate a campionato in corso, abbia condizionato pesantemente il suo rendimento sportivo, derivandone anche qui un fattore di umiliazione. Questi effetti, nel momento in cui sono estranei alle dinamiche della competizione che si svolge sul campo, appaiono potenzialmente idonee a ledere la dignità del calciatore-lavoratore. Questi effetti pregiudizievoli comportano che la sanzione assuma qui una caratteristica peculiare: la sua portata afflittiva si produce anche nei confronti di un soggetto, il calciatore, che nulla ha a che fare con l’illecito che quella sanzione vuole punire. Infatti, nella specie la sanzione non è diretta a reprimere un “illecito di campo”, che ha alterato il risultato della competizione sportiva, bensì una violazione che riguarda regole di bilancio della società. Non si tratta, dunque, come si è verificato, ad esempio, per “calciopoli” di condizionamento arbitrale che incide sul risultato della partita. Il calciatore qui si vede vanificare il suo sforzo di prestazione per un illecito a cui è totalmente estraneo, che non lo ha agevolato sul campo ad ottenere un risultato a sé favorevole, come nel caso di condizionamenti arbitrali o doping o altro. Nel punire anche il calciatore, viene meno in questo caso un requisito fondamentale, si potrebbe definire “ontologico”, l’entelekía, di ogni sanzione, e cioè il nesso di casualità con l’illecito e con l’imputabilità del soggetto che lo ha realizzato. La sanzione non può produrre effetti pregiudiziali “collaterali” nei confronti di chi non ha alcuna responsabilità. Oltretutto, trattandosi qui di un ordinamento che appunto vuole essere “sportivo”, e che pone alla sua base, come “Grundnorm”, il principio di lealtà, appare una contraddizione che, proprio lui, diventi “sleale”, prevedendo un sistema sanzionatorio sportivamente “sleale” che mortifichi l’atleta [continua ..]