Con la sentenza del 19 maggio 2022, n. 125, la Corte costituzionale interviene sul regime sanzionatorio del licenziamento per motivi oggettivi, seguendo il ragionamento già anticipato dalla precedente sentenza del 1° aprile 2021, n. 59, con la quale era stato disposto l’obbligo (e non la mera facoltà) del giudice di reintegrare il lavoratore nell’ipotesi di (manifesta) insussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
In particolare, la Corte, nella precedente sentenza, aveva evidenziato che «Per i licenziamenti economici, il legislatore non solo presuppone una evidenza conclamata del vizio, che non è sempre agevole distinguere rispetto a una insussistenza non altrimenti qualificata, ma rende facoltativa la reintegrazione, senza offrire all’interprete un chiaro criterio direttivo» (punto 10.1 della sentenza).
Anche in questa ultima sentenza, il riferimento ad una “manifesta” insussistenza è apparso dunque irragionevole e non fondato su elementi certi e determinati, tanto più se relativo ad un fatto materiale.
Più in particolare, la Corte costituzionale, con la sentenza citata, ha modificato il regime sanzionatorio del licenziamento per motivi oggettivi rispetto alla disciplina prevista dall’art. 18, comma 7, secondo periodo, Stat. Lav., sancendo la sua illegittimità costituzionale con riferimento alla parola “manifesta” e ribadendo che la “insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” non richiede ulteriori qualificazioni o accertamenti.
Pertanto, mentre la Legge Fornero, modificando l’art. 18, Stat. Lav., aveva sancito che, in caso d’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, la reintegrazione era dovuta solo se l’insussistenza era manifesta, intesa dalla giurisprudenza nel senso di evidenza piena e dunque facilmente verificabile, con la sentenza in esame, invece, la Corte ha dichiarato incostituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., la previsione di tale requisito aggiuntivo.
A detta della Corte, l’aggettivo “manifesta” appare “innanzitutto indeterminato” e “si presta infatti a incertezze applicative e può condurre a soluzioni difformi con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento”, quando invece “vi sono fondamentali esigenze di certezza” (punto 9.1 della sentenza).
Per quanto riguarda il contrasto sollevato con riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., esso è stato ravvisato nella arbitraria disparità di trattamento tra il regime applicabile al licenziamento intimato per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, da un lato, e la disciplina del licenziamento determinato da un giustificato motivo oggettivo, dall’altro lato.
La disposizione censurata rimetterebbe cioè alla «scelta totalmente discrezionale» del giudice la determinazione delle tutele spettanti al lavoratore ingiustamente licenziato, senza fornire alcun «criterio serio ed omogeneo, uguale per tutti» ed amplierebbe eccessivamente il “fisiologico” margine di discrezionalità del Giudice nella valutazione del caso concreto.
Tale contrasto è emerso anche da un punto di vista strettamente processuale e di onere probatorio dato che la disciplina censurata, imponendo al lavoratore l’onere della prova di “un fatto dai contorni incerti” limiterebbe la sua libertà ed uguaglianza.
D’ora in avanti, in ragione di questi interventi demolitori, il licenziamento per motivi oggettivi, se ingiustificato, comporterà sempre la reintegrazione per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015.
Per quelli assunti successivamente, invece, esso non comporterà la reintegrazione ma il pagamento di un’indennità che va da 6 a 36 mensilità a seconda dei vari criteri su cui la discrezionalità del giudice è molto ampia.
Ricordiamo che, affinché un licenziamento per motivi oggettivi sia giustificato e quindi legittimo, deve sussistere sia la soppressione del posto cui era addetto il lavoratore, sia l’impossibilità di adibirlo ad altre mansioni libere che il lavoratore stesso sia in grado di svolgere.
In conclusione, a dieci anni dall’entrata in vigore del “nuovo” articolo 18 (come modificato dalla legge n. 92/2012), si può ritenere che le iniziali perplessità circa il sostanziale ridimensionamento della tutela reintegratoria, ribadito anche da quel filone giurisprudenziale secondo cui la tutela reintegratoria non è costituzionalmente necessitata (Corte cost. 11 novembre 2011, n. 303; Corte cost. 7 febbraio 2000, n. 46; Corte cost. 14 gennaio 1986, n. 2; Corte cost. 8 luglio 1975, n. 189; Corte cost. 6 marzo 1974, n. 55; Corte cost. 28 dicembre 1970, n. 194; Corte cost. 30 giugno 1994, n. 268), non sono state confermate.
La Corte, come si è visto, capovolge l’assetto della norma rendendo la reintegrazione la tutela normale in caso di licenziamento individuale per ragioni oggettive e la tutela indennitaria del tutto residuale.
Non c’è dubbio che vi è il rischio che tali sentenze possano avere un impatto rilevante sulle future decisioni della Corte Costituzionale relative alla disciplina del Jobs Act, qualora i giudici di merito sollevino questioni di legittimità costituzionale sulla disciplina applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015.
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