Le tecniche di tutela nell’età della giurisdizione
Carlo Pisani, AIDLASS, 2022
in Bollettino Adapt
ABSTRACT
La relazione si articola in due parti. La prima ripercorre per grandi linee ed in modo sistematico le principali fasi delle tutele e delle loro tecniche. La seconda parte è dedicata al quadro sincronico di come si presentano oggi le principali forme e tecniche di tutela, con particolare riferimento alle questioni più problematiche, laddove sono emerse le tensioni e le contraddizioni rilevate su di un piano teorico nella prima parte.
Ancor prima di questo esame si illustrano le ragioni dell’espressione utilizzata nel titolo “l’età della giurisdizione”, in quanto i suoi significati sono strettamente connessi con le nuove declinazioni del principio di effettività delle tutele e dei rimedi. Infatti, la nozione di tutela nel diritto privato si è arricchita da tempo di significati ulteriori rispetto a quelli tradizionali, anche sotto la spinta della progressiva valorizzazione che si è avuta del suddetto principio e del diritto ad un rimedio effettivo. La svolta a tal proposito si è avuta quando, a partire dagli anni ’70-’80 del secolo scorso, sono cominciate ad emergere le tendenze dirette ad ampliare il riferimento della nozione di tutela anche ad ordini di interessi o bisogni.
Il passaggio decisivo affonda le radici nello spostamento giuridico dal primato della legge al primato dei principi, quali fonti del nuovo diritto privato. In questo contesto anche il principio di effettività è stato inteso come un vero e proprio “principio che si fa diritto” ad un “rimedio effettivo”, come correlazione con un diritto, ma anche solo con un bisogno.
A questa corrente di pensiero si è opposto criticamente il timore di una concezione volta a esaltare la creatività giurisprudenziale come fonte primaria del diritto.
Tutto ciò va inquadrato in una tendenza ancora più generale definita l’“età della giurisdizione” per indicare il primato esponenziale che si è riconosciuto alla giurisprudenza. Una simile impostazione ha suscitato obiezioni prevalentemente basate sul timore che, in tal modo, vi può essere il rischio di rendere la funzione giurisdizionale strumento di attuazione delle idee e convinzioni personali che ogni singolo giudice può essere indotto a trasferire nelle decisioni.
Il fenomeno del soggettivismo e creazionismo giudiziario è da sempre un tema divisivo, delicato e insidioso nel diritto del lavoro poiché, da una parte della dottrina, esso è ritenuto salvifico dei diritti fondamentali del lavoratore; da altra parte, invece, viene da sempre guardato con forti perplessità per la tendenza ad essere declinato in chiave politico-ideologica.
La relazione passa poi ad esaminare le principali fasi delle tutele, a partire dal momento in cui il diritto del lavoro ha conosciuto il suo culmine protettivo per il lavoratore, raggiunto con lo Statuto dei lavoratori e il processo del lavoro del 1973.
Quel sistema di garanzie “tra i più avanzati”, tuttavia aveva “toccato il livello di guardia oltre il quale non è possibile procedere” (Giugni), in quanto pensato per una economia in rapida crescita come presupposto indefettibile di tali tutele.
Inoltre, quel sistema era segnato da una sorta di vizio d’origine, che lo avrebbe sempre accompagnato, consistente nella formazione alluvionale della normativa che determinava “una serie di antinomie o lacune di collisioni”, e che si traduceva in una irrazionale stratificazione di tutele.
Allorquando lo shock petrolifero nel 1973 pose fine allo sviluppo economico, il legislatore fu indotto ad intervenire, a partire dal 1977, con una serie di provvedimenti in controtendenza; soprattutto, fu costretto a frenare il costo del lavoro. Era nato il diritto del lavoro dell’emergenza, a cui subentrò la sua “stabilizzazione” chiamata “diritto della crisi”.
Il processo di adeguamento così avviato delle tecniche di tutela si connotava però per la sua lentezza e i suoi ritardi; ancora a cavallo del nuovo secolo, le istanze di flessibilizzazione trovavano sbocco solo in direzione dello sviluppo di tipologie atipiche, con la c.d. legge Biagi, il d. lgs. n. 276/2003, ma non per quanto atteneva ai vari profili di disciplina del rapporto di lavoro, che restavano sostanzialmente intatti.
Nell’arco di tempo che va dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso e fino al 2012, la nota dominante è probabilmente da ravvisare nella valorizzazione dell’autonomia collettiva in funzione flessibilizzante della disciplina del rapporto e della riduzione dello spazio della norma inderogabile uniforme e delle sue rigidità e automatismi. Un’altra direzione di allentamento della norma inderogabile si è verificato a livello individuale, sempre in sede assistita, soprattutto nella stagione del Jobs Act, in cui è aumentato il numero delle disposizioni che hanno aperto spazi alla vera e propria possibilità di deroga anche alla disciplina del rapporto. Nonostante ciò, non è condivisibile evocare “crisi” o “tramonti” dell’inderogabilità; è stato realizzato piuttosto un allentamento, moderato e controllato, di quella “porzione” di inderogabilità che aveva determinato una “onnipervasiva intangibilità delle discipline di tutela” (De Luca Tamajo). Anche perché non bisogna dimenticare che all’inderogabilità si accompagna la tecnica della nullità e, a sua volta, della sostituzione legale automatica, che non è ovviamente “indolore” per la certezza del diritto, specialmente in tutte le situazioni in cui la correzione dell’originario regolamento negoziale viene effettuata ex post, a distanza di tempo e con effetto retroattivo dovuto alle lungaggini dell’accertamento giudiziale.
L’improvvisa accelerazione si è avuta con la madre di tutte le riforme e cioè la modificazione dell’art. 18 statutario, che è importante contestualizzare per evitare giudizi eccessivamente astratti .La tecnica della riforma dell’art. 18 risiede nell’aver posto fine all’uniformità sanzionatoria che caratterizzava il precedente regime, che vincolava il giudice, senza nessuna discrezionalità, ad applicare sempre la medesima massima sanzione, e che quindi equiparava iniquamente, e forse incostituzionalmente, situazioni tra loro anche molto differenti. Peraltro, il mito della reintegrazione generalizzata era già entrato in crisi da tempo, come ha dimostrato la l. n. 108/90, che ha dato la possibilità di monetizzarla introducendo l’indennità sostitutiva.
Tre anni dopo veniva attuato il Jobs Act che, tra l’altro, portava a compimento la riforma del regime sanzionatorio del licenziamento. È stato realizzato quello che aveva tentato ma non era riuscito a fare il precedente Governo, e cioè l’abolizione completa della reintegrazione per il licenziamento per motivi oggettivi; ma la blindatura del regime sanzionatorio si è avuta con l’introduzione del criterio di determinazione ex ante dell’indennità a c.d. “tutele crescenti” calcolato sulla sola anzianità del lavoratore. Al riguardo si pone l’opzione di fondo: se la scelta di un indennizzo economico certo contro il licenziamento illegittimo come strumento efficace al fine di aumentare la propensione delle imprese ad assumere, oltre che ad attrarre investitori esteri, rientri o no nella esclusiva competenza della discrezionalità legislativa. Si propende per l’opinione affermativa; invadere questo campo è una manifestazione fenomenologica tipica della c.d. “età della giurisdizione”.
Non si è fatta attendere la stagione delle controtendenze; il carattere fortemente innovativo del Jobs Act, ma anche della l. n. 92/12, ha infatti provocato a sua volta una reazione difensiva e avversativa, volta a disinnescare il potenziale riformistico, che impattava sulle abitudini culturali e ideologiche di ampia parte della giurisprudenza e della dottrina del diritto del lavoro. E così, soprattutto dopo le elezioni del 2018, si è avuta questa reazione a tutti i livelli: sul piano legislativo, basti ricordare l’ennesima riforma del contratto a termine, che riportava indietro la tecnica delle causali di oltre cinquant’anni, riesumando pedissequamente la vecchia giustificazione delle punte di attività non programmabili, che tanti danni aveva causato; è stato introdotto anche l’incremento della misura minima e massima dell’indennità del licenziamento ingiustificato, che però lasciava inalterato il criterio di calcolo; a livello giurisprudenziale, sono emerse le varie interpretatio abrograns dell’art. 18, commi 5 e 6, Stat. lav.
Ma, nel periodo che va dal 2018 ad oggi, si è avuta soprattutto la controriforma ad opera della Corte costituzionale, attuata con il suo quadruplice (per ora) intervento demolitore di alcuni dei nuovi regimi di tutela, suscitando le approvazioni di una parte della dottrina; in altra parte, invece, talune forzature o alcune impostazioni argomentative, nonché la torsione a cui la Consulta ha piegato alcuni istituti, hanno suscitato la sensazione della “eccedenza del discorso politico sull’interpretazione costituzionale” (Tursi), alimentando il dubbio che l’intenzione sia stata quella di smantellare una certa stagione del diritto del lavoro (Amendola).
Le pronunce da cui forse emerge più evidente questa impressione sono l’ultima (per ora), la n.125/2022, e la terza, la 59/21, che hanno ritenuto incostituzionale la norma del comma 7 dell’art. 18, nei suoi due elementi che la differenziavano dalla causale del comma 4, e cioè l’attribuzione al giudice del potere equitativo di decidere se applicare la sanzione dell’indennità al posto della reintegrazione, nonché il carattere di “manifesta” che doveva presentare l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per motivi oggettivi. Infatti, la Consulta, pur non spingendosi a rinnegare il suo principio secondo cui la reintegrazione non è costituzionalmente necessitata, erode un caposaldo della riforma del regime di tutele voluta dal legislatore, e cioè la riduzione ad eccezionalità e a residualità della tutela reintegratoria, in generale, ma in modo ancor più marcato in relazione all’ingiustificato motivo oggettivo. Sorprende che uno dei motivi di incostituzionalità sia stato visto nella caratteristica delle norme censurate di essere a precetto generico, quando non pochi aspetti parimenti importanti della disciplina del rapporto di lavoro sono regolati dalla medesima tecnica normativa. In sostanza, l’effetto della suddetta sentenza è quello di abrogare la tutela indennitaria per il licenziamento per motivo oggettivo che, invece, nelle intenzioni del legislatore, doveva costituire la regola e non l’eccezione. Ciò risulta evidente se si considera che ormai, a seguito della soppressione delle parole “può” e “manifesta”, è stata sostanzialmente ripristinata la reintegrazione generalizzata in relazione alla modalità-motivazione tipica e più diffusa di tale licenziamento, quella per soppressione del posto, soprattutto se coniugata con l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il fatto che deve sussistere è composto inscindibilmente da entrambi gli elementi del giustificato motivo e cioè la soppressione del posto e la prova dell’impossibilità del repêchage. Infatti, al fine della sussumibilità in entrambe le fattispecie (insussistenza e ingiustificatezza), è sufficiente che il datore di lavoro non riesca a dimostrare anche uno solo dei due suddetti elementi costitutivi, o comunque non riesca convincere il giudice; quest’ultimo, quindi, dovrà applicare, nell’incertezza, il principio dell’onere della prova e decretare la doppia soccombenza del datore, dichiarando ingiustificato il licenziamento e condannandolo alla reintegrazione.
La seconda parte della relazione, dedicata alle forme e tecniche di tutela nella fase applicativa, parte dalla fondamentale distinzione tra crediti pecuniari e crediti aventi ad oggetto una condotta attiva od omissiva del datore di lavoro. Solo per i primi, infatti, l’ordinamento predispone una tutela specifica satisfattiva tendenzialmente completa, pur limitata dai lunghi tempi delle procedure esecutive e di quelle fallimentari. Tra queste tecniche, merita di essere segnalata la diffida accertativa per la sua particolare efficacia, ma anche per i dubbi di costituzionalità che essa presenta in quanto si tratta di un titolo esecutivo di formazione amministrativa difficilmente sospendibile.
Per quanto riguarda le forme specifiche di tutela per i crediti retributivi, si pone ovviamente il problema della loro temporanea imprescrittibilità. Infatti, a seguito della riduzione dell’ambito di applicazione della reintegrazione si sono registrate differenti opinioni in dottrina e giurisprudenza tra chi intende ritornare al regime “assolutista” e “creativo” di Corte cost. n. 63/66, di sospensione del decorso della prescrizione per tutti i lavoratori, e chi ritiene invece che ancora oggi la prescrizione continui a decorrere come per il passato per i rapporti di lavoro con datori di lavoro che abbiano i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 Stat. lav., commi 8 e 9. Ritornare acriticamente al regime che fu introdotto, mezzo secolo fa, da una sentenza creativa (Corte cost. n. 63/66), non tiene conto appunto del contesto normativo nel cui ambito si pronunciò la Consulta, in cui vigeva ancora il regime di libera recedibilità. Questo automatismo trascura altresì l’altro contesto normativo in cui si collocavano le successive sentenze “adeguatrici” delle Sezioni Unite della Cassazione, che avevano di fronte a sé solo due regimi sanzionatori; da un lato, il quasi nulla, o molto poco, previsto dal blandissimo art. 8 della l. n. 604/66; dall’altro lato, il “tutto”, quello della massima sanzione uniforme della reintegrazione. Pare evidente che la scelta non poteva che ricadere su questa unica seconda opzione. Sicché è indispensabile un ripensamento di tale disciplina, anche alla luce delle quattro sentenze della Consulta, tenuto conto che i nuovi regimi di tutela sono ancora in grado di dispensare, oltretutto in modo generalizzato, la tutela reintegratoria identica a quella del passato, proprio in quelle situazioni ritorsive che maggiormente dovrebbero alimentare il suddetto “metus”. Inoltre, l’indennità da sei a trentasei mensilità di retribuzione ad alta discrezionalità giudiziaria è in grado di “rivaleggiare”, ai fini della situazione psicologica del lavoratore, con la reintegrazione a risarcimento limitato con indennità sostitutiva, considerato che quest’ultima si traduce quasi sempre in una negoziazione economica. È opportuno, in ogni caso, prendere atto che il grado di stabilità del rapporto di lavoro idoneo a paralizzare il decorso della prescrizione consiste in un giudizio squisitamente politico che dovrebbe essere espressione della volontà parlamentare.
Le difficoltà di una tutela effettiva aumentano per i diritti del lavoratore aventi ad oggetto comportamenti infungibili del datore di lavoro, quali, ad esempio, l’adibizione a mansioni a cui il lavoratore ha diritto, l’effettiva possibilità di esecuzione della prestazione, la riammissione nel luogo di lavoro o all’unità produttiva, la cessazione di condotte vessatorie o discriminatorie. Qui, infatti, la tutela specifica satisfattoria del preciso interesse del creditore incontra l’ostacolo della incoercibilità di tali obblighi, in quanto, nonostante le tendenze ad ampliare il principio di effettività, di fronte agli obblighi di fare o non fare infungibili, il nostro ordinamento non predispone i mezzi necessari alla possibile soddisfazione del preciso interesse protetto dalla legge sostanziale attraverso una tutela specifica ripristinatoria o satisfattoria. In questi casi, salve le disposizioni speciali, al creditore non resta che la tutela risarcitoria per equivalente.
Per tentare di coniugare il principio di effettività con la suddetta incoercibilità degli obblighi infungibili, in alcuni casi eccezionali vengono utilizzate tecniche di tutela inibitoria-ripristinatoria che dovrebbero costringere il datore di lavoro a tenere un determinato comportamento, positivo o negativo, corredandole alle volte con misure di coercizione indiretta o compulsoria. Tali misure rientrano nel più ampio genus di quei rimedi che hanno come scopo, non quello di fare ottenere al titolare del diritto il bene o l’utilità dovuta, quanto di costringere il soggetto a adempiere “spontaneamente” al proprio obbligo attraverso appunto la minaccia di conseguenze afflittive.
All’interno di tale ampia categoria si possono distinguere, su di un piano funzionale, le misure che hanno lo scopo di indurre all’ottemperanza del provvedimento giurisdizionale, denominate anche compulsorie indirette, o di “coercizione indiretta”, come si esprime la rubrica dell’art. 614 bis cod. proc. civ., da quelle invece che sono poste direttamente a corredo della fattispecie sostanziale e che, quindi, scattano per la violazione del precetto normativo, denominate anche afflittive dirette.
Nell’ambito delle misure del primo tipo, la più nota è quella prevista dall’art. 28 Stat. lav.; altra norma che utilizza la tecnica inibitoria-ripristinatoria praticamente identica corredandola anche qui con la tecnica compulsoria penale ingiunzionale, è l’art. 38, comma 4, d. lgs. n. 198/06, in caso di inottemperanza al decreto che ordina al datore di lavoro la cessazione della condotta o di rimozione degli effetti in caso di atti discriminatori.
Al di là di queste eccezionali forme di coercizione indiretta di natura penale, vi è la figura generale dell’astreinte, codificata nel diritto francese come pena moratoria giudiziaria, per cui il debitore può essere condannato a pagare una somma per ogni giorno di ritardo nell’adempimento; qui lo scopo evidentemente non è di riparare al pregiudizio derivante dall’esecuzione tardiva (al quale provvedono gli interessi moratori), ma di indurre il debitore ad adempiere, con la minaccia di dover subire una condanna via via crescente; come è stato affermato, l’efficacia dell’astreinte dipende “dalla capacità di resistenza del debitore e delle sue sostanze”. Una misura accostabile alla suddetta fattispecie della astreinte può essere vista nella norma dell’articolo 18, ultimo comma Stat. lav., che prevede il pagamento al fondo adeguamento pensioni da parte del datore di lavoro di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore per ogni giorno di ritardo nella non ottemperanza alla sentenza di reintegrazione del sindacalista illegittimamente licenziato.
L’esclusione dell’applicabilità al rapporto di lavoro dell’art. 614 bis, che prevede una astreinte generalizzata, da alcuni è stata ritenuta incostituzionale, ma essa si ritiene sia giustificata dalla specificità del contratto di lavoro quale contratto di durata, in cui l’effetto dissuasivo dell’inottemperanza alla condanna spesso è già incorporato nella disciplina del rapporto stesso come, ad esempio, negli illeciti di danno, in cui il risarcimento aumenta con la continuazione dell’illecito, in quanto il suo accertamento da parte del giudice spesso avviene a distanza di tempo.
Un esempio paradigmatico di misura di coercizione indiretta del provvedimento del giudice, di origine giurisprudenziale, e quindi di uso creativo della tecnica dei rimedi atipici, sono le sentenze della Cassazione, che, in relazione all’illegittimità del trasferimento di azienda, hanno riconosciuto il diritto ad una seconda retribuzione dovuta dal cedente, in aggiunta a quella percepita dal cessionario per lo stesso periodo in cui il lavoratore abbia continuato a lavorare per quest’ultimo anche dopo la sentenza. L’aspetto interessante da sottolineare è l’introduzione di una tale misura in mancanza di una norma specifica che autorizzi espressamente una funzione “compulsiva” della retribuzione in assenza di prestazione lavorativa, per cui la giurisprudenza fa ricorso direttamente a un principio, quello appunto costituito dall’“effettività del rimedio”, reperendolo qui appunto nella disciplina della mora credendi; quest’ultima viene quindi trasformata rispetto alla sua funzione originaria di strumento di responsabilità per la mancata liberazione del debitore-lavoratore, per essere utilizzata invece come misura coercitiva atipica. Il suddetto metodo è inevitabilmente foriero di contraddizioni sistematiche e si pone in contrasto con quanto affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 86/2018, sulla natura risarcitoria e non retributiva delle somme dovute in assenza di controprestazione lavorativa, a seguito della sentenza di reintegrazione. Questa vicenda induce a ritenere che il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale non possa giustificare di per sé qualsiasi approdo interpretativo, oltretutto ai massimi livelli della giurisdizione. Il che rimanda sempre al medesimo problema generale di politica del diritto: se affidare al legislatore, oppure al giudice, la selezione degli interessi meritevoli di protezione mediante misure compulsive indirette e la loro individuazione con le relative modalità.
L’effettività dei rimedi può essere garantita anche mediante la tecnica delle sanzioni afflittive poste a corredo direttamente della fattispecie sostanziale, con funzione eminentemente dissuasiva e/o punitiva. È proprio in relazione alle sanzioni civili che emergono le maggiori difficoltà di distinzione di funzioni rispetto al risarcimento del danno, allorquando si è in presenza di disposizioni in cui, a fronte dell’illecito, accanto alla funzione compensativa-riparatoria, emerge una natura “polifunzionale” che esalta il creazionismo giudiziario, mediante il quale può essere più agevolmente scelto, in questa sorta di cassetta degli attrezzi, il rimedio che al singolo giudice appare maggiormente efficace, anche se espressamente non previsto o addirittura alle volte, non consentito dalla legge. Vengono così messe in crisi le schematiche distinzioni tradizionali, alla cui stregua riparazione, coercizione e sanzione sono concetti profondamente diversi. Invece, con le nuove tendenze, ogni qual volta che si dà corso alla sensazione che il risarcimento non sia sufficiente a “ripagare” il mal fatto, si fa strada la convinzione che occorra anche “punire” l’autore; di qui l’idea, sviluppatesi in particolare negli Stati uniti, dei danni appunto punitivi.
Il principale fattore che genera la suddetta confusione è innanzitutto lo sganciamento del risarcimento dal danno effettivo. Per evitare tuttavia che, a questo punto, il concetto di sanzione diventi talmente generico, fino ad accumunare tutto ciò che può definirsi rimedio contro un torto ricevuto, in dottrina sono stati proposti alcuni criteri per distinguerla dal risarcimento. Innanzitutto, la terzietà del soggetto beneficiario; nei casi in cui questo manchi, altro criterio è stato visto nella modalità di commisurazione per la quantificazione che inducono ad escludere la natura risarcitoria se sono incentrate sul grado della colpa, con conseguente connotazione e funzione punitiva e quindi ontologicamente diversa da quella riparatoria del danno. Non aver colto questa distinzione è alla base delle critiche mosse alla sentenza della Consulta n. 150/2020, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 4 d. lgs. n. 23/15, nella parte in cui determinava l’indennità per i vizi procedimentali con criterio di calcolo predefinito in base alla sola anzianità. Ciò che non convince di tale sentenza, infatti, è l’idea di fondo di volere equiparare, sia pure ai fini dei criteri di determinazione della sanzione, due fattispecie che invece rimangono differenti, in quanto, un conto è un licenziamento ingiustificato; ben diverso è invece un licenziamento che, pur presentando qualche vizio procedimentale o formale, tuttavia è pur sempre giustificato; tant’ è vero che, l’omologa norma dell’art.18 comma 6, prevede quale unico criterio quello della gravità dell’infrazione.
Dall’esame di un insieme di fattispecie – escluse quelle relative al licenziamento- si possono individuare tratti ad esse comuni che portano ad accomunare le sanzioni sganciate dal risarcimento del danno effettivo alla fattispecie delle penali legali, quindi con natura afflittiva/punitiva, con funzione sostitutiva di ogni risarcimento, che però può non escludere la funzione di ristoro forfettizzato di un eventuale danno. Esempio tipico di indennità punitiva dell’illecito può considerarsi quella prevista per il termine nullo dall’art. 28, comma 2, d. lgs. n. 81/15. La sentenza della Corte costituzionale 11 novembre 2011, n. 303, ne ha affermato la chiara valenza sanzionatoria, oltre a ribadire l’importante principio, forse sottovaluto dalla stessa Corte in sentenze successive, secondo cui la sostituzione del regime risarcitorio di diritto comune con l’indennità forfettaria non è incostituzionale.
Ampio spazio viene dedicato, in proposito, alla natura delle indennità per il licenziamento illegittimo.
L’indennità non inferiore alle cinque mensilità viene ritenuta una vera e propria penale forfettaria. Per l’indennità commisurata alle retribuzioni perdute dal giorno del licenziamento a quello della sentenza di reintegrazione, è prevalsa la conservata qualificazione espressa in termini di “risarcimento del danno”, sicché tale commisurazione viene considerata una presunzione relativa suscettibile di prova contraria in relazione all’aliunde perceptum o percipiendum; ma accade che venga trasformata nei fatti in sanzione da quell’orientamento giurisprudenziale restrittivo sull’ammissibilità della prova per presunzioni semplice in ordine al reperimento di altro reddito da parte del lavoratore nelle situazioni in cui trascorrono anni prima della reintegrazione. Questo dimostra come, per trasformare la natura risarcitoria di una condanna in funzione afflittiva, sia sufficiente non ammettere una prova nel giudizio, ottenendo così l’effetto sanzionatorio tutte le volte in cui il reddito conseguito aliunde dal lavoratore si cumula con l’importo della retribuzione piena corrisposta a titolo di indennità risarcitoria, invece di essere da essa detratto. L’interpretazione sembra assestata anche sulla natura giuridica delle somme dovute al lavoratore dal datore che non ottempera all’ordine di reintegrazione e poi risulta vittorioso nei successivi gradi di giudizio. La Consulta ha infatti ribadito la natura risarcitoria con conseguente detrazione dell’eventuale aliunde perceptum e percipiendum, e della ripetizione di tali somme da parte del datore di lavoro che ha “scommesso” sulla legittimità del licenziamento.
I problemi interpretativi che invece ha sollevato il nuovo sistema di tutele per il licenziamento ingiustificato, soprattutto con il decreto n. 23/2015, e che ha dovuto affrontare la Corte costituzionale, riguardano essenzialmente la natura e la funzione del regime delle indennità previste per la tutela non reintegratoria. In relazione all’indennità prevista dall’art. 8, l. n. 604/66, era comunque prevalsa la qualificazione come penale ex lege, sostitutiva di qualsiasi risarcimento e con funzione deterrente dell’illecito, essendo rinvenibili tutti i caratteri che connotano tale qualificazione giacché: non occorre alcuna prova di un danno effettivo, che dunque può anche non esserci nel caso il lavoratore abbia reperito immediatamente altra migliore occupazione; nè rileva la prova contraria di un tale eventuale aliunde per diminuire l’importo dell’indennità; i criteri previsti per la sua determinazione guardano prevalentemente alle condizioni del datore di lavoro per individuare la capacità economica del danneggiante e la capacità di “espiazione” dell’autore dell’illecito, secondo la logica sanzionatoria e non risarcitoria.
Nel modificare l’art. 18, il legislatore, per la tutela indennitaria del comma 5, ha seguito criteri in larga parte analoghi a quelli indicati in precedenza dall’art. 8 l.n.604/66. Anzi, sono stati accentuati i parametri sempre più estranei al danno subìto dal lavoratore ma maggiormente in grado, invece, di dare conto della effettiva solidità del datore di lavoro e quindi della sua reale capacità economica di subire condanne d’importo più o meno elevato. Si è quindi ritenuto in dottrina che, nonostante la qualificazione, quasi tralaticia, come “risarcitoria”, l’indennità prevista dall’art.18, comma 5, sia invece sganciata dalla prova di un danno effettivo, la cui funzione prevalente, se non esclusiva, è dunque quella sanzionatoria, caratterizzata dalla forte impronta di penale ex lege forfettaria, come lo era l’originaria indennità di cui all’art. 8, con prevalente connotazione punitiva dell’illecito. Il principale deficit di adattamento del nuovo art. 18 si è individuato nel non aver introdotto limiti alla discrezionalità del giudice nella scelta dei criteri e nel valore da attribuire a ciascuno dei suddetti criteri. Ed infatti il d. lgs. n. 23/15, di fronte alle varie incertezze che venivano emergendo dall’applicazione del nuovo art. 18, ha inteso così dare attuazione, anche in riferimento al comma 5, alla precisa direttiva della legge delega, che obbligava il Governo ad adottare un decreto legislativo nel rispetto, tra gli altri, del criterio direttivo della “previsione di un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio”.
Intervenuta poi la sentenza n.194/18, che ha aggiunto un ulteriore “strato” a quello solo tre mesi prima apposto dal decreto dignità con l’incremento della soglia minima e massima; la Corte non ha toccato questo incremento, ma ad esso ha sovrapposto una norma priva di quei criteri che solo tre mesi prima invece il legislatore aveva conservato. Riemergono così ancora una volta le “lacune di collisione”, o le vere e proprie irrazionalità, derivanti da questo fenomeno di stratificazione. La Corte ha ritenuto incostituzionale il meccanismo di calcolo automatico in quanto, in primo luogo, non consentiva una adeguata personalizzazione del danno effettivo subìto dal lavoratore con il licenziamento, impedendo un adeguato ristoro. Per raggiungere questa finalità ha introdotto nell’ordinamento una norma senza alcun criterio alla cui stregua il giudice sia vincolato, consentendogli quindi di “fare da sé” quella personalizzazione del danno effettivo. L’altra tecnica, seguita dalla Corte, è rinvenibile nella motivazione: nel tentativo di suggerire al giudice i possibili criteri per la determinazione di tale indennità, la sentenza prende come riferimento quelli previsti dall’art. 8 della l. n. 604/66 e dall’art. 18, comma 5, affermando che il legislatore, proprio mediante i criteri previsti da tali norme, aveva invece “correttamente individuato i fattori che determinano il pregiudizio prodotto nei vari casi di licenziamento ingiustificato”. La Corte, dunque, non si avvede che quelle indennità da lei prese a modello di riferimento non hanno affatto, se non in minima parte, quella funzione risarcitoria. Anzi, essi vanno nella direzione esattamente opposta in quanto sono quasi tutti rivolti, come è tipico delle sanzioni, alla potenzialità economica del danneggiante. Il secondo tipo di argomento è quello secondo cui la liquidazione legale forfettizzata, in relazione all’unico parametro prefissato dell’anzianità di servizio, contrasterebbe con il principio costituzionalmente obbligato della adeguata dissuasione del risarcimento. La Corte ritiene quindi che l’effetto di deterrenza sia assicurato proprio perché la nuova disciplina lascia al giudice un amplissimo spazio di discrezionalità valutativa. Qui, dunque, la deterrenza è assicurata dalla incertezza e imprevedibilità della decisione giudiziaria.
Una menzione a parte meritano le tecniche di tutela contro le discriminazioni, in ragione della loro varietà, che combinano tecniche di diritto comune sostanziale e processuale e di diritto speciale. Vi sono le tecniche di tutela inibitoria e ripristinatoria del tutto simili a quelle in materia antisindacale, che si accompagnano alla variegata gamma di sanzioni di natura penale, sia in funzione di misura compulsoria indiretta, sia direttamente punitive della condotta, oltre alle sanzioni civili e alle sanzioni amministrative; a questo autentico campionario si aggiungono ancora quelle di diritto comune quello della nullità ex art. 15, comma 1, Stat. lav. Infine, resta sempre anche il rimedio risarcitorio. Sul piano applicativo si evidenzia che da questa stratificazione di tutele possono scaturire, come al solito, anche effetti poco coerenti.
Infine, la relazione passa ad esaminare le tecniche di tutela nei confronti dell’esercizio illegittimo degli altri poteri del datore di lavoro diversi dal licenziamento, che sono affidate prevalentemente al diritto comune, tranne alcuni rimedi speciali, esaminati in precedenza, posti a tutela di particolari interessi del lavoratore, come, ad esempio, le sanzioni penali per la violazione dei limiti ad alcuni poteri di controllo. Qui prevalgono dunque le tutele di condanna all’adempimento, con i ben noti limiti della incoercibilità, quella risarcitoria-compensativa o per equivalente e quella costitutiva, di invalidazione degli atti illegittimi del datore di lavoro, che li rende improduttivi di effetti, con tutte le relative conseguenze, che vanno dall’applicazione della mora credendi, all’autotutela o all’eccezione di inadempimento. Qui le invalidità demolitorie possono essere “quasi satisfattive” nei confronti dell’esercizio illegittimo di alcuni poteri, come, ad esempio, nel caso del potere disciplinare conservativo, determinando la nullità della sanzione; ciò si verifica anche in relazione all’esercizio dei vari poteri di controllo, se si considera che dalla nullità deriva l’inutilizzabilità, specie sul piano disciplinare, delle informazioni acquisite illecitamente. Invece i problemi sorgono al cospetto di quei poteri gestionali del datore, modificativi di mansioni e del luogo di lavoro, in cui la tecnica dell’invalidazione può rivelarsi rimedio scarsamente effettivo, perché di per sé non è fonte di risarcimento dei danni che può provocare l’esercizio contra legem di quei poteri. Si è così tentato di recuperare la fattispecie risarcitoria attribuendo alle norme che limitano l’esercizio di questi poteri, non solo la funzione di limite legale al loro esercizio, ma anche natura di obbligazione di non fare gravante sul datore di lavoro; in tal modo, l’attuazione di fatto del provvedimento illegittimo costituisce anche inadempimento contrattuale, con conseguente possibilità del risarcimento del danno.
A proposito della tutela risarcitoria, ineluttabile a fronte delle incoercibilità degli obblighi di fare e di non fare infungibili, vengono esaminate alcune tendenze della giurisprudenza che utilizza tale tutela anche in funzione punitiva dell’illecito o comunque con una connotazione sanzionatoria, mediante varie tecniche, che vanno dall’uso inappropriato delle prove per presunzioni, o direttamente, mediante la teoria del danno in re ipsa, oppure della liquidazione equitativa del danno. Al riguardo si ripropone sempre il solito dilemma: se e in che limiti la giurisprudenza può indulgere alla suggestione dei valori infrangendo la barriera della loro positivizzazione normativa.
Nei confronti dell’esercizio illegittimo dei poteri del datore di lavoro una concreta strategia (quasi) satisfattiva, diretta a prevenire il danno in alternativa alla tutela risarcitoria, può derivare da una combinazione tra tutela giurisdizionale e autotutela individuale conservativa, in quanto consente al lavoratore di sottrarsi alla situazione pregiudizievole ma senza rinunziare al rapporto, come avverrebbe con le dimissioni. La controindicazione è il rischio per il lavoratore di trovarsi esposto al licenziamento per il rifiuto della prestazione, a causa di una non condivisibile giurisprudenza che in questa situazione ritiene applicabile, invece del semplice rifiuto di una prestazione non dovuta, l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ., e quindi valuta di volta in volta se la reazione-inadempimento del lavoratore sia stata proporzionata all’inadempimento del datore. Questo rischio per il lavoratore può essere in parte mitigato con l’uso “sinergico” della tutela cautelare, mediante la richiesta di un provvedimento d’urgenza ex art. 700 cod. proc. civ. di sospensione degli effetti dell’atto pregiudizievole.