Emergenza coronavirus, rifiuto del vaccino e licenziamento
di Carlo Pisani
Professore ordinario di diritto del lavoro
Università degli Studi di Roma Tor Vergata
in Guida al Lavoro, Numero 3 – 19 gennaio 2021
Le possibili conseguenze sul piano del rapporto di lavoro a seguito del rifiuto di vaccinarsi da parte del lavoratore addetto a particolari mansioni.
La distribuzione dei primi vaccini tra gli operatori sanitari ha sollevato subito il problema di quali siano le conseguenze per coloro che lo rifiutano. Questo problema si porrà anche nel futuro prossimo man mano che il vaccino sarà disponibile per tutti quei lavoratori addetti a mansioni che comportino l’esecuzione della prestazione a distanza interpersonale ridotta con altri colleghi o con soggetti terzi, quali utenti clienti pubblico ecc.
Come ha solennemente affermato il Presidente della Repubblica nel suo messaggio di fine anno, in questo momento di epidemia il vaccinarsi è da considerare “doveroso” per tutti i cittadini. A fronte di un siffatto monito, sono opportune alcune puntualizzazioni di carattere strettamente giuridico, al fine di evitare che il giuslavorista appaia avulso da questa tragica realtà, per inseguire invece opinioni per lo più antiscientiste, oppure malintese concezioni dei diritti di libertà individuali, dirette a sostenere che questo dovere non varrebbe per il lavoratore subordinato, nonostante sia addetto a determinate mansioni a rischio contagio per sé e per gli altri.
Il presupposto ovvio dal quale deve partire il discorso del giurista è che il vaccino non sia nocivo per chi lo assume, quantomeno non più di un normale farmaco di questo tipo.
Onere di vaccinarsi per il lavoratore addetto a determinati tipi di mansioni
Nei casi in cui il lavoratore che rifiuti di vaccinarsi sia addetto a mansioni che implichino lo stretto contatto con i colleghi o con soggetti terzi, in linea generale può essere configurabile non un obbligo bensì un onere del lavoratore di sottoporsi al vaccino, naturalmente ove questo sia accessibile, in quanto l’essere vaccinato, nella situazione di estrema gravità della pandemia da Covid-19, può assumere la rilevanza di un requisito sanitario essenziale per lo svolgimento in sicurezza della prestazione lavorativa[1], e financo incidere sul giudizio medico di inidoneità alle mansioni (vedi oltre).
Il datore di lavoro ha infatti l’interesse, non solo prettamente egoistico legato al suo profitto, ma anche alla tutela dei posti di lavoro, ad evitare o ridurre, per quanto in suo potere, il rischio della diffusione del Covid-19 nell’organizzazione, affinché non si verifichino focolai o addirittura veri e propri “cluster”, con conseguente chiusura o sospensione dell’attività produttiva. È pur vero che vi sono già le misure stabilite dal “Protocollo” del 24 aprile, ma, al di là del giudizio sulla loro efficacia -visto che si sono registrate oltre centomila denunce all’INAIL per Covid contratto sul luogo di lavoro- il protocollo non poteva certo prevedere il vaccino perché ad aprile ancora non era stato realizzato.
A questo interesse del datore di lavoro e degli altri dipendenti, il lavoratore “no vax” potrebbe contrapporre il suo diritto di non sottoporsi a trattamenti sanitari non desiderati, in assenza di una disposizione di legge (art. 32, comma 2 Cost.). Ma, a prescindere dalla questione se nella specie può essere rintracciabile una norma che lo imponga, che vedremo (par. 3 e 4), inquadrare la fattispecie nella figura dell’onere e non in quella dell’obbligo comporta comunque che il lavoratore sia libero di non vaccinarsi, così come, nella sua vita privata, è, ad esempio, libero di non assumere antibiotici anche se il medico li ritiene necessari, oppure, più in generale, è libero di non prendersi cura della propria salute. Sicché il lavoratore non commette alcun illecito contrattuale con questa sua scelta, salvo quanto si dirà in relazione a particolari tipi di rapporti di lavoro. Tuttavia, il suo inserimento in una organizzazione lavorativa comporta che, se non vuole correre il rischio di essere licenziato per giustificato motivo oggettivo, deve assolvere, appunto, all’ onere di vaccinarsi.
La figura dell’onere ricorre, infatti, quando una determinata condotta non è imposta e non è prevista una sanzione in caso di sua inosservanza, ma essa condiziona il soddisfacimento di un interesse del singolo, che qui consiste nella conservazione del rapporto di lavoro. Non si tratta dunque di violare la libertà del lavoratore/cittadino di non vaccinarsi, bensì di prendere atto che la persona non può sdoppiarsi, sicché inevitabilmente alcune sue vicende o scelte della sua vita privata possono incidere negativamente sul rapporto di lavoro, sia per quanto riguarda il funzionamento dell’organizzazione, sia per quanto riguarda i requisiti soggettivi del lavoratore.
È difficile contestare che pandemia da Covid-19 sia un fenomeno di tale straordinaria portata, che ha comportato il sacrificio di altri diritti di libertà costituzionali ritenuti inviolabili, come ad esempio la libertà di uscire da casa, da far ritenere che la vaccinazione rientri a tutti gli effetti nei requisiti soggettivi per il lavoratore addetto a determinate mansioni. Ad esempio, in relazione all’infezione da HIV, la Corte costituzionale ha ritenuto indispensabile la deroga alla legge che vieta le indagini sulla sieropositività nei casi in cui questa sia rilevante per l’idoneità professionale del lavoratore, in considerazione del rischio contagio connesso al tipo di mansioni[2].
Pertanto, la mancanza di un tale requisito può integrare gli estremi del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ex art. 3 L. n. 604/66. Come è noto, infatti, in tale fattispecie rientrano anche fatti della vita privata relativi alla persona del lavoratore, ma incidenti sull’organizzazione aziendale[3], allorquando vengono meno determinati requisiti indispensabili per l’esecuzione della prestazione e/o di sopravvenuta inidoneità alla mansione, che rendono in concreto incompatibile la prosecuzione del rapporto[4].
Ovviamente non sarà sufficiente per la giustificazione del licenziamento la generica causale “Covid”, come invece accade per la Cassa integrazione, in quanto il datore di lavoro dovrà dimostrare, innanzitutto, che le mansioni del lavoratore implichino il contatto stretto, o comunque idoneo a trasmettere il virus, con colleghi e soggetti terzi, quali clienti, pazienti, utenti o pubblico. Pertanto, non è licenziabile con questa causale il dipendente che, ad esempio, lavori in smart working o in una postazione isolata.
Inoltre, proprio perché non si tratta di recesso per “colpa”, il datore deve fornire anche la prova dell’impossibilità del repechage, e cioè dell’insussistenza di altre mansioni libere dello stesso livello di inquadramento, o inferiori, a cui adibire utilmente il lavoratore “no vax”, che non implichino il contatto con colleghi e con terzi, senza però dover modificare l’organizzazione e senza alcun obbligo di formazione[5]. Il lavoratore non può invece pretendere che gli sia conservato un tale rapporto di lavoro inutilizzabile, nell’attesa o nella speranza che prima o poi venga raggiunta la c.d. “immunità di gregge”, in quanto la sopravvenuta inidoneità del lavoratore, in concreto incompatibile con la prosecuzione del rapporto, è anche quella di durata imprevedibile, con valutazione da effettuare ex ante[6].